Miart / Milano

18 Aprile 2018

Per un critico o un curatore, esplorare una fiera d’arte contemporanea è spesso un’ardua impresa. Non solo per le dimensioni titaniche raggiunte da tali manifestazioni – concepite per esporre, vendere e acquistare – ma anche per un inevitabile senso di smarrimento e frustrazione. Ad avvilire lo spirito critico di un addetto ai lavori è l’assenza di un principio curatoriale generale; un fil rouge che leghi insieme le opere in mostra, attribuendo un “significato” a ciò che spesso si presenta come una composizione incoerente di oggetti dal valore commerciale (a volte) inestimabile. Per queste ragioni, recensire una fiera è un esercizio destinato alla parzialità: un’analisi intrinsecamente carente, priva di pretese di completezza.
Ho parlato di smarrimento, frustrazione, incompletezza. Eppure, sorprendentemente, questa edizione di miart ha suscitato in me sensazioni di tutt’altro genere. Oltre alle proporzioni “a misura d’uomo”, che fanno di miart una fiera compatta, facilmente navigabile (a differenza dei colossi Art Basel e Frieze), l’edizione 2018 – per il secondo anno consecutivo sotto la direzione artistica di Alessandro Rabottini – ha dato forma a un progetto raffinato, capace di mescolare diverse anime del mercato dell’arte (o meglio, delle arti): l’arte contemporanea (dalle gallerie più affermate a quelle più cutting-edge), l’arte moderna e il design. Formula che trovava un riscontro concreto nelle sezioni che strutturavano la fiera: “Established” (“Contemporary” e “Masters”), “Emergent” e “Object” – oltre a “Decades”, “Generations” e “On Demand”, definite da specifici concept curatoriali).
Una sorta di “sprezzatura” – un’eleganza ricercata, capace di unire sapientemente qualità curatoriale ed esigenze di mercato – permeava l’edizione appena trascorsa. A partire dalla sezione “Emergent”, a cura di Attilia Fattori Franchini, che in uno spazio piuttosto ristretto (occupato da 20 stand) raccoglieva le presentazioni delle più interessanti giovani gallerie italiane e internazionali (molte delle quali giovanissime, come la viennese Sophie Tappeiner, inaugurata un anno fa). Horizont Gallery (Budapest), tra i migliori stand della sezione, esponeva una serie di lavori a ricamo di Klára Hosnedlová e dipinti di Igor Hosnedl all’interno di un’installazione concepita da entrambi gli artisti e che ricreava gli interni di un’abitazione di Brno degli anni Venti progettata da Mies van der Rohe. Di fronte, la bolognese Gallleriapiù presentava lavori in pelle (definiti dagli artisti “poesie tatuate su pelle”, una delle quali recitava: “The glow of a nostalgic Instagram philter softening our edges and truths. Our past and present imploding”) del collettivo Apparatus 22, oltre a due disegni e a un video di Ann Hirsch, dalla serie Cuts, sistematica indagine sulla pornografia online.
All’interno della sezione “Established” (a cura di Alberto Salvadori), una selezione di lavori di Matt Mullican (rubbing, disegni e sculture, dagli anni Ottanta ad oggi) era esposta da Mai 36 Galerie (Zurigo): una sorta di micro-monografica dell’artista americano, in mostra anche da HangarBicocca con un progetto ciclopico fatto di oltre 5000 lavori (The Feeling of Things), disperato tentativo di categorizzare il mondo nella sua interezza. Oltre agli stand di CLEARING (New York, Bruxelles) con dipinti geometrici di Sebastian Black e sculture metalliche di Jean-Marie Appriou, Isabella Bortolozzi (Berlino) con un gruppo di assemblage e sculture di Stephen G. Rhodes e ZERO… (Milano) con tre dipinti di Alessandro Pessoli (uno dei quali rappresentava due figure a testa in giù con i corpi traforati da dildo, banane e spiedini) è doverosa una menzione a Peter Kilchmann (Zurigo), che ha ricoperto il pavimento del proprio stand con un tappeto di Francis Alÿs composto da tasselli colorati, ciascuno raffigurante una mano il cui dito indice copre parzialmente una bocca (forse, un invito a tacere negli affollati corridoi della fiera). Dalla londinese Rodeo (per la prima volta a miart), invece, un progetto “On Demand” di Christodoulos Panayiotou – un set di gioielli appositamente prodotto per l’evento e indossati dal team della galleria – si accompagnava, fra gli altri lavori, a una tavola monumentale di Tamara Henderson (in mostra durante i giorni di miart presso il Laboratorio Francesco Russo per “Case Chiuse #06”, con una suggestiva installazione di disegni e tendaggi ricamati e uno straordinario film in 16mm).
Tra le giovani scoperte di questa edizione vi è l’artista londinese e residente a Berlino Kasia Fudakowski, in mostra allo stand di ChertLüdde (parte della sezione “Generations”, a cura di Lorenzo Benedetti). In dialogo con gli acquarelli di William T. Wiley (presentato da Parker Gallery, Los Angeles), Fudakowski esponeva una nuova installazione composta da tre sculture: all’interno delle corazze metalliche di tre valigie da viaggio Rimowa, l’artista ha ricreato in miniatura le opere che avrebbe dovuto esporre in stand, fra cui una riproduzione di precedenti lavori invenduti. Un dissacrante commento sul collezionismo e il mercato dell’arte, che rammenta ai visitatori – collezionisti e non – il fine ultimo di ogni fiera d’arte: comprare e mettere in valigia.

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