miart senza Milano? / miart 2017

10 Aprile 2017

Tra i dibattiti promossi durante l’edizione dello scorso giugno di Art | Basel ne figurava uno intitolato: “Milan: All of a Sudden, a Destination?” Non nascondo che allora avevo trovato questo titolo offensivo, e ancora oggi non saprei dire se per l’espressione “all of sudden” [“di punto in bianco”], o per la qualifica della città come “meta” (turistica). Ai partecipanti – Giovanna Amadasi, responsabile dei progetti culturali ed istituzionali di Hangar Bicocca; Barbara Casavecchia, Contributing Editor di Frieze e docente all’Accademia di Belle Arti di Brera; Alessandro Rabottini, l’allora neo-nominato direttore artistico di miart; e Chiara Repetto, della galleria Kaufmann Repetto – si domandava in sostanza: ma com’è che Milano è finita sulle mappe degli art aficionados? Asserendo, tra le righe, che fino a qualche tempo fa il sistema dell’arte milanese non solo non facesse notizia, ma neppure pensasse di se stesso più di una società carbonara… Per la qualità della sua offerta culturale, si era risposto in coro; e qualcuno aveva immancabilmente fatto notare che quell’offerta, mai come altrove, è servita su uno sfondo urbano squisitamente “signorile” e “di classe”. Pare che, di questa riscoperta di Milano, sia davvero responsabile quel regista Luca Guadagnino che in Io sono l’amore ha raccontato a un pubblico internazionale la vicenda di una famiglia dell’alta borghesia milanese, ambientandola tra la Villa Necchi-Campiglio e il Cimitero Monumentale…

Purtroppo quella di Guadagnino non è la Milano della gran parte dei milanesi, e men che meno di quelli che vivono di arte contemporanea. A me, che comunque sono milanese d’adozione, ma che in questa città mi sono formato professionalmente, mentre guardavo la registrazione online di quel dibattito, era venuto spontaneo fare un collage con la schermata del computer e la copertina di un romanzo di Fleur Jaeggy, I beati anni del castigo, e di postarlo sulla mia pagina Instagram. Il post ricevette pochissimi like; ma da allora osservo con più coscienziosità come il sistema dell’arte locale programmaticamente si comprometta con la mitologia della città – dalla “modernità” del lifestyle dei milanesi, alla sobria eleganza delle architetture cittadine, al risotto con l’ossobuco, all’immancabile Negroni sbagliato del Bar Basso.

Questo fenomeno è mai più vero quanto durante le ultimi edizioni di miart. Tra le proposte della fiera stessa e degli eventi collaterali, miart offre a chi viene da fuori un’esperienza olistica di Milano – un long weekend di ping pong tra le sontuose vie del centro, tra le boutique di moda e gli showroom di design, e le ex-periferie industriali in via di gentrificazione. Ora, la fiera in sé non ha poi tanta colpa nel far leva sul sex appeal della città. Ma credo sia importante che noi cosiddetti “art professionals” iniziamo per primi a problematizzare l’apparato divulgativo che abbiamo edificato sopra le meraviglie di Milano e, in questo modo, frenare un processo di reificazione che sta trasformando la nostra città in un parco a tema del “gusto metropolitano” (per dirla con Prada). Qui l’arte contemporanea corre il rischio di rappresentare niente più che una delle tante attrattive, mentre la missione culturale delle istituzioni locali – laddove ne esiste una – rimane un optional. Gli strati del packaging si ispessiscono non solo a nascondere il contenuto, ma a sostituirlo del tutto.

Partiamo da una delle estremità della fiera: la sezione “Object”. Dedicare una porzione consistente di una fiera d’arte all’arredamento e alla decorazione d’interni – seppur attraverso pezzi di ricerca e in edizione limitata – significa insistere in una narrazione che vede Milano indissolubilmente legata all’industria del design. In un certo senso è ciò che i non-milanesi sanno e aiuta la fiera ad ancorarsi allo stereotipo della città. Questa sezione, però, rimane isolata – mi viene da domandare: come mai in tutte le sezioni “curate”, e soprattutto in “Generations”, ex-“THENnow”,  ideata proprio per suggerire dei dialoghi, non ne compare uno tra un artista e un designer? –; né gli espositori di “Object” fanno lo sforzo di proporre ibridazioni disciplinari. (Fa eccezione Erastudio Apartment Gallery di Milano, con oggetti e sculture di Riccardo Dalisi, Ugo Marano, Urano Palma e Nanda Vigo, tutti architetti e designer che storicamente hanno inseguito un superamento degli approcci progettuali del “bel design”).

La scarsa eco di questa sezione sul resto della fiera è un’occasione mancata di proporre invece una continuità con la tradizione altrettanto milanese e italiana dell’integrazione delle arti. Nella fiera non mancano esempi in questa direzione, tanto tra gli artisti storici (penso agli Studi per progetti parietali, 1954-55, di Gianni Monnet, presentati da Studio Dabbeni di Lugano) e i giovanissimi (le opere a parete Rose Window, 2015, e le sculture Spinoff (FVP), 2016-17, tutte in legno intarsiato e inciso, di Riccardo Beretta, presentate dalla Plutschow Gallery di Zurigo). E pure fuori-fiera, le mostre di Andrea Sala alla Galleria Federica Schiavo e di Alessandro Agudio da Fanta Spazio segnalano un interesse da parte degli artisti locali nel riconsiderare attraverso l’arte le forme e i modi del Made in Italy.

La sezione “Established | Masters”, dedicata all’arte moderna, presenta innumerevoli capolavori del passato, alcuni dei quali degni di una collezione museale – un esempio su tutti: la tela Comizio di quartiere (1975) di Renato Guttuso, presentata dalla Galleria d’Arte Maggiore G.A.M. di Bologna. L’insistenza è tuttavia su una traiettoria del modernismo italiano (gli ubiqui de Chirico, Melotti, Fontana, Castellani ecc.) che ancora lascia troppo poco spazio alle vicende di artisti che il sistema dell’arte locale ha marginalizzato. E bisogna infatti andare ai margini della sezione per rintracciare artiste donne – e donne femministe (segnalo le selezioni di opere di Lucia Marcucci da Frittelli Arte Contemporanea di Firenze e di Tomaso Binga alla Galleria Tiziana Di Caro di Napoli) o artisti con carriere tangenziali ai macro-gruppi dell’arte italiana del dopoguerra (una selezione di opere di Claudio Costa da Ca’ di Fra’ di Milano, e le presentazioni monografiche di Piero Fogliati da Osart Gallery di Milano e di Luca Maria Patella da Il Ponte di Firenze).

A fare da tramite tra “Established | Masters” ed “Established | Contemporary”, le sezioni “Generations” e “Decades” propongono presentazioni, rispettivamente, doppie-personali e personali. In “Generations”, i dialoghi tra artisti di differente generazione, senza un opportuno apparato storico-critico, si sviliscono nell’abbinamento formale. È difficile giudicare queste presentazioni al di là di quanto suggerisce il colpo d’occhio – e a colpo d’occhio, direi che la più riuscita è quella che a un ciclo di fotografie proto-costruttiviste dalla serie Construct (anni Ottanta) di Barbara Karsten, presentato da Bortolami Gallery di New York, accosta recenti assemblage di Jessica Stockholder, presentati dalla Galleria Raffaella Cortese di Milano. “Decades”, invece, si articola in dieci presentazioni monografiche ognuna delle quali “affonda” in una decade del Novecento. Anche qui, la mancata esplicitazione di una linea guida storico-critica rende queste presentazioni atomizzate. E sebbene ai due antipodi troviamo due figure “radicali” – Francis Picabia, presentato da Michael Werner di Londra/New York, e Gregor Schneider, presentato da Guido Costa Projects di Torino – questa sezione non manifesta l’ambizione di offrire una traiettoria “alternativa”, o quantomeno “problematizzante” della storia dell’arte del secolo scorso – e come “Generations”, fluidifica la sintassi della fiera, senza tuttavia alterare la pragmatica dei suoi contenuti.

(In questo senso, l’unica vera innovazione di questa edizione è la sezione “On Demand” che raggruppa opere, distribuite nei diversi stand, “attivabili” dall’acquisizione, e che quindi devono essere realizzate in situ o/e richiedono la partecipazione diretta del collezionista – ad esempio Milkdrunk I, 2017, di Lena Henke, alla Galerie Emanuel Layr di Roma/Vienna, uno stampo per realizzare una scultura di sabbia a forma di seno femminile. Questa sezione suggerisce nuove frontiere del collezionismo, oltre il semplice possesso dell’opera-commodity).

In sostanza, la qualità della fiera è alta – come si direbbe; ma è sempre la solita fiera. La “modernità” di una comunità si valuta anche sulla condizione di inquietudine di fronte al proprio passato, che porta a una continua volontà di riscrittura. Zero… di Milano presenta l’opera di Massimo Grimaldi Mitsubishi i, Parked Indefinitely (2017), un progetto che prevede l’acquisto di un’automobile di ultima generazione, perché venga abbandonata per sempre in un parcheggio a simbolo dell’obsolescenza programmata degli oggetti tecnologici. L’opera di Grimaldi è un monito alla temporalità della fiera, ma anche un invito rivolto alla fiera stessa a pensarsi come momento storico.

Mentre scrivo prendo delle pause e scorro Instagram. In pochi post apprendo che la Galleria Massimo De Carlo aprirà una nuova sede nella Casa Corbellini Wassermann, un edificio situato nel centro di Milano, progettato da Piero Portaluppi (lo stesso architetto che progettò la Villa Necchi Campiglio); e che la casa editrice tedesca Taschen ha appena pubblicato un coffee-table book che raccoglie fotografie di ingressi di edifici milanesi, Entryways of Milan. Mi domando quindi se il sistema dell’arte locale possa mai trovare una propria identità, senza dover fare leva necessariamente sull’identità di Milano – senza dover svelarne i luoghi nascosti, senza dipendere dalla visibilità di un brand di moda milanese, eccetera eccetera. Di fronte alla rarità di infrastrutture che tutelano l’arte fatta a Milano, soprattutto quella giovane, e contribuiscono a teorizzarne e storicizzarne le istanze culturali, la produzione di cultura in città sarà sempre interpretata attraverso narrazioni mitologiche. Con il rischio che se quei miti decadranno – perché, in fondo, qui parliamo di moda, e la moda va e viene – la cultura locale si troverà denudata, e allora dovrà rispondere solo di se stessa.

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