Nel Padiglione Stirling trovo una copia di Representations of the Intellectual di Edward W. Said (Vintage Books, New York, 1994; trad. it. Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano, 1995). È tra i volumi selezionati da Frances Stark per “La mia biblioteca”, progetto corollario della mostra “Viva Arte Viva” per cui la curatrice Christine Macel ha invitato gli artisti partecipanti a condividere le loro “letture preferite” con i visitatori della Biennale. Representations raccoglie le conferenze tenute da Said nel 1993 sulla BBC Radio nel contesto della prestigiosa serie delle “Reith Lectures”. È un’appassionata disamina a favore del ruolo pubblico dell’intellettuale quale outsider, “dilettante”, contestatore: “È lo spirito di opposizione, non di compromesso”, che secondo Said contraddistingue quel ruolo; “che mi prende, perché l’avventura, l’interesse, la sfida della vita intellettuale va cercata nel dissenso rispetto allo status quo, in un momento in cui la lotta a favore dei gruppi meno avvantaggiati e rappresentati sembra essere così ingiustamente risolta in loro sfavore” (p. 16). Da una remota mensola della “biblioteca” di “Viva Arte Viva”, le poco più che cento pagine di Representations mi si offrono come un’obiezione a una mostra che, lasciando fuori i fatti del mondo nell’intento di ritrovare le espressioni più genuine della creatività umana, presenta l’arte come un’attività contemplativa, emozionale e tuttalpiù terapeutica; ma, al tempo stesso, un’attività a-programmatica e disimpegnata, che pare mettere da parte quella che Said individua come la “vocazione dell’intellettuale”, e quindi dell’artista: “mantenere uno stato di vigilanza costante” di fronte all’esercizio del potere (p. 37). Introdotta invece dalla categoria dell’otium latino – che il comunicato stampa definisce come l’intervallo “di inerzia laboriosa e di lavoro dello spirito” nel quale nasce l’opera d’arte – “Viva Arte Viva” appiattisce i propri contenuti a innocue manifestazioni di isolamento ed evasione. La vitalità dell’arte che, per quanto mi riguarda, ho sempre individuato nella possibilità di dare spazio a sentimenti di disallineamento e antagonismo, si tinge di toni pastello e si consuma riflessivamente nella festosità della kermesse. (L’inoffensività di “Viva Arte Viva”, d’altro canto, giustifica la risposta ai limiti dell’isteria collettiva ottenuta da un progetto come quello di Anne Imhof per il Padiglione tedesco, nella cui narrativa di sfida al potere istituzionale il visitatore, portato a cercare nell’arte una forma di dissenso, esorcizza appunto la propria libido).
Una grande mostra che si preclude al senso dell’epica inevitabilmente compromette la propria forma. È il caso di “Viva Arte Viva”, le cui opere sono raramente “drammatiche” e, seppur ordinatamente organizzate, scivolano l’una dentro l’altra, senza una sintassi avvincente, senza un climax. L’installazione di Liliana Porter El hombre con el hacha y otras situaciones breves (L’uomo con l’ascia e altre brevi situazioni, 2013) – un diorama in cui la figurina di un uomo che imbraccia una scure sembra responsabile dell’apocalittico paesaggio che si svolge di fronte, un crescendo di detriti che arriva a contenere anche un vero pianoforte sventrato – è non solo un’eccezione che conferma la regola; ma presentata in una delle ultime sale dell’Arsenale, pare essere una metafora sarcastica di quello che questa mostra non è. La veemenza che permea l’installazione di Porter è pressoché assente nella mostra di Macel.
“Viva Arte Viva” si dispiega invece tra rappresentazioni idilliache. Da una parte, l’otium, l’inattività prerogativa dell’attività artistica. Alla serie fotografica di Mladen Stilinović Artist at Work (L’artista a lavoro, 1978), in cui Stilinović si raffigura serenamente addormentato nel proprio letto, fa eco un gruppo di opere di Franz West, tra cui fotografie che lo ritraggono accasciato su una delle sue chaise longue; un disegno e collage di Frances Stark, Behold Man! (Guarda uomo! 2013), in cui anche Stark si rappresenta accasciata sul suo divano, circondata da una quadreria che svela i suoi riferimenti visivi; e l’installazione di Yelena Vorobyeva e Viktor Vorobyev, The Artist is Asleep (L’artista è addormentato, 1996), ricostruzione di una stanza da letto in cui un individuo appare addormentato. Quando visito “Viva Arte Viva”, persino Dawn Kasper, la cui partecipazione consiste nell’aver trasferito il suo studio nella mostra, per tutta la sua durata, sta dormendo su una branda…
Ora, ogni lavoratore ha diritto al riposo. Ma in “Viva Arte Viva” l’improduttività non si afferma come un contro-progetto alle logiche del produttivismo – logiche che non risparmiano il lavoro artistico; e l’inerzia del fare appare più come un privilegio dell’artista, un’attitudine radicata nel suo stile di vita. (Nel Padiglione Centrale, circondati da tutti questi artisti a riposo, i soli a essere “indaffarati” sono i giovani rifugiati che assemblano le lampade Green Light nel laboratorio di Olafur Eliasson; il progetto paternalista di Eliasson necessariamente finisce per suggerire una disuguaglianza fondata sullo sfruttamento della forza lavoro, ironicamente nella stessa sala dove due anni fa si leggeva a voce alta Il capitale di Marx).
All’altro estremo della parabola di “Viva Arte Viva” c’è la trascendenza. Un progetto di emancipazione dell’arte da facili letture materialistiche è quanto mai necessario; ma l’esplorazione di Macel non va oltre la presentazione di opere ieratiche o non-narrative. La sospensione è, infatti, la “figurazione” più ricorrente nella mostra: in Broken Fall (organic) (Caduta interrotta, 1971) di Bas Jan Ader, l’artista è sospeso su un canale; in Law of Situation (Legge della situazione, 1971/2017) di Kishio Suga, dieci pietre piane sono sospese a filo d’acqua; in The Worldy Cave (La grotta terrestre, 2017) di Zhou Tao, gruppi di individui sono sospesi in ambientazioni-limbo tra sogno e realtà. Gli esempi potrebbero essere molti altri. Ma il potere ammaliante di queste opere è alquanto limitato: Jan Ader presto cade nel canale; le pietre di Suga poggiano su una piattaforma di fibra di vetro; i luoghi surreali di Zhou sono rovine della civiltà industriale. Contrariamente alle aspirazioni metafisiche della curatrice, queste opere mi sembrano piuttosto bypassare la spiritualità, riaffermando che le forze della fisica, così come altri poteri ugualmente concreti e pervasivi, sempre assoggettano le opere degli artisti.
Anche nell’ambito dell’azione diretta, che comunque “Viva Arte Viva” tangenzialmente considera, Macel seleziona gesti che sottendono un’ambizione di ridefinire un’ideale di collettività e altri che sono invece più agopunturali “pratiche del quotidiano” – i secondi vanificano i primi. Ciò accade, ad esempio, nella seconda sala dell’Arsenale, nella quale l’azione di Lee Mingwei The Mending Project (Il progetto del rammendo, 2009-15) è affiancata alle fotografie di documentazione dell’azione di Maria Lai Legarsi alla montagna (1981). In The Mending Project l’artista o un suo assistente si offre di rammendare capi d’abbigliamento usurati offertigli dai visitatori, utilizzando i fili colorati delle decine di rocchetti appesi alle pareti intorno al tavolo da lavoro; terminato il rammendo, i capi sono impilati sul tavolo. In Legarsi, Lai ha impiegato un nastro per “legare” assieme le case (e le famiglie) del suo paese natale, Ulassai, in Sardegna, e quindi Ulassai alla montagna che la sovrasta. Entrambe queste opere sono rituali per esorcizzare l’individualismo, prima di tutto a un livello micropolitico; ça va sans dire, la sfida che Lai lancia alla sua comunità – di pensarsi come un organismo olistico, in fusione con il paesaggio nel quale è immersa – emerge da una “vocazione” di ben più ampia portata… In virtù di questa vocazione, anche se simbolico e anti-monumentale, Legarsi emerge come un’impresa “grandiosa”. Ma la prossimità con l’offerta di Mingwei di “legare” i capi dei visitatori allo spazio della mostra, in quello che emerge come l’ennesimo progetto partecipativo all’insegna di arte-e-cucito, annichilisce il gesto di Lai.
In Legarsi, Lai dimostra quanto l’artista può e deve essere: per dirla ancora con Said, “un uomo scontroso, facondo e iracondo, dotato di straordinario coraggio, per il quale nessun potere incute così soggezione ed è così immenso da non dover essere sottoposto a critiche” (p. 23–24). Sfortunatamente, in “Viva Arte Viva”, la sua voce – così come le voci di numerosi altri artisti “antagonisti” – è indebolita da un sistema costruito su associazioni approssimative. Se queste agevolano l’accostamento del visitatore alle strategie formali e concettuali impiegate nell’arte contemporanea, soffocano negli artisti quell’abilità di rispondere prontamente alle circostanze storiche e politiche che è la sfida di ogni vero intellettuale.