Assenza, memoria, perdita: tre concetti astratti difficilmente formalizzabili che Rachel Whiteread condensa, da più di venticinque anni, nelle sue sculture. All’ingresso della più recente mostra dell’artista britannica alla galleria Lorcan O’Neill di Roma, gli occhi dello spettatore devono adattarsi a un’installazione al limite del visibile. Solo attraverso uno sforzo percettivo è possibile identificare le opere che circondano il perimetro della sala e che potrebbero sembrare parte integrante dello spazio che le accoglie: calchi in resina, cemento, cartapesta, o foglia d’argento di serramenti, porte, finestre, travi e lamiere. Tutti elementi, assodati o celati di un’abitazione, a cui l’artista ridona vita attraverso un tratto ormai riconoscibile che si pone al confine tra il pittorico e il tridimensionale in un mutismo solo apparente. Ogni opera di Whiteread rivela una storia: un grido liberatorio del vuoto che giunge alla superficie del campo visivo, compensando l’immobilità del minimalismo formale con una cifra carica di emotività.
Se Londra è sempre stata lo sketchbook privilegiato di Whiteread, in questo caso l’artista si confronta con Roma e le storie dietro alle porte chiuse delle stanze dei suoi palazzi. Due porte (2017), il pezzo centrale della mostra, è infatti stato realizzato a partire da un uscio monumentale rinvenuto in un palazzo romano. Three Blind Windows (2017), sempre un calco in resina, questa volta di finestre chiuse, ribadisce il mistero che si cela dietro alle soglie serrate e impenetrabili. I muri di cartapesta di Wall (Apex) (2017) o di Wall (Door) (2017), appesi alle spesse pareti – reali – della galleria proiettano lo spettatore in una potenziale e affascinante dimensione che si trova oltre l’opera, capace di scatenare suggestioni provenienti dalla memoria e dall’immaginazione.
Le sculture silenziose delle fondamenta di una casa svelano così una presenza empatica. Ci si fa largo nell’opera, si schiudono quegli accessi impenetrabili che tuttavia lasciano sempre il desiderio di sapere di più. Ancora una volta, Whiteread ci impone di tenere fisso lo sguardo per scorgere la risonanza viscerale di cui è carico il suo monumento all’assenza e all’impermeabile.