Damien Hirst Palazzo Grassi e Punta della Dogana / Venezia

9 Agosto 2017

 

Diciamolo subito: è un genio. A dispetto di chi lo accusa di essere solo uno stratega di mercato, di chi lo ritiene ormai finito, superato per età e per sviluppi dell’arte, o di chi lo considera ripetitivo, senza più la capacità di aggiungere qualcosa alla sua visione artistica, con questa mostra veneziana della dimensione di un colossal Damien Hirst seppellisce tutte le critiche sotto un corpus di lavori straordinari e stilisticamente innovativi.

La vicenda è ormai nota e già rivoluzionaria per come l’artista ha reinventato il format dell’esposizione partendo da una narrazione, la storia del liberto Cif Amotan II, che avrebbe raccolto una collezione di opere e oggetti meravigliosi – i più belli e preziosi dell’antichità – li avrebbe messi su una nave, l’Incredibile, poi miseramente affondata, portando con sé i suoi inestimabili tesori. Scoperti tra i fondali e riportati alla luce, dopo anni di faticosi recuperi sottomarini, talvolta ripuliti e restaurati, perlopiù ancora incrostati di coralli, conchiglie, poriferi e anemoni di mare, sono ora esposti nelle due sedi veneziane della Collezione Pinault, Palazzo Grassi e Punta della Dogana, a formare un intero museo con grandi sculture e immagini dei ritrovamenti, con sezioni di oggettistica e stanze di disegni.

Che siamo di fronte al naufragio della nostra cultura, alla crisi dei nostri valori, persino alla deriva dei sistemi logici e organizzativi del mondo occidentale, è un fatto ormai esplicito ai nostri occhi, anche se non osiamo dircelo con chiarezza. “Treasures of the Wreck of the Umbelievable” parla proprio di questo. Non è solo la fine di una nave che conteneva le meraviglie della cultura antica, ma il naufragio di tutta la nostra conoscenza.

Assieme a donne con leoni, guerrieri fiabeschi, mostri mitologici, appaiono infatti anche i miti del nostro tempo, come il disneyano Topolino, Mowgli del Libro della giungla, i Transformer giapponesi, o persino i ritratti di dive come Rihanna. C’è anche l’immagine dell’artista, un autoritratto in veste di Cif Amotan II, il collezionista, a suggellare, come in un dipinto del passato, il gioco tra il vero e il falso, tra l’arte e la realtà. Inutile cercare le fonti; le immagini derivano da centinaia di suggestioni diverse, dalle contorsioni dei corpi del Laocoonte alle donne ondeggianti e filiformi di Füssli, di cui si avverano gli incubi e i mostri del Meistorm; dalle storie dei fumetti alle mitologie classiche; dai film di fantascienza ai regesti di sculture antiche. Le culture indiana, cinese, amerindia sono pure assorbite, raccolte in questo museo immaginario, ove tutto è mixato, ormai sganciato dal senso originario. Quella Wunderkammer di oggetti pieni di incrostazioni è dunque il nostro mondo, la nostra cultura attuale sepolta in un abisso.

La globalizzazione è sempre esistita si potrebbe dire. In misura diversa la mescolanza tra culture si è verificata a tratti anche nell’antichità. Così fu pure nell’epoca in cui Hirst immagina la vicenda, tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, quando la pax romana e lo slancio dei mercati favorivano la creazione di una cultura sincretista e la religione di Cristo si faceva largo a fatica tra il vecchio paganesimo e lo Zoroastrismo, il Giudaismo e il culto di Iside. Così è oggi, quando miti e tradizioni diverse sono diffusi, prima ancora che dalle migrazioni, dal sistema di Internet. In fondo questa mostra è la trascrizione tridimensionale del prodotto della rete, del frullato della cultura mondiale che emerge dal web, in cui passato e presente, oriente e occidente, si mescolano e si ibridano.

All’interno della cornice del racconto, come un grande prestigiatore, Hirst avvia una serie di giochi tra vero e falso, tra romanzo e realtà. Sembrerebbe quasi un leitmotiv veneziano quello della copia. Alla Fondazione Prada abbiamo visto mostre di sculture ellenistiche – copie di copie di copie – e persino la copia di una mostra intera. Naturalmente non c’è da pensare a un’ispirazione diretta, il lavoro di Hirst su questo corpus è cominciato molti anni fa. È lo spirito dei tempi: siamo in un’età digitale, nell’era della post-verità, dove vero e falso, copia e originale non hanno forse più ragione di essere. Così, Hirst si diverte a esporre insieme il presunto originale coperto di incrostazioni marine e l’opera dopo la ripulitura, come se anziché di sculture si trattasse di foto in una sequenza temporale. Oppure traduce le stesse composizioni in materie diverse, passando con agilità dal bronzo al marmo, dall’alluminio all’oro, entrando e uscendo continuamente, passando dalle stanze dell’invenzione a quelle della realtà, talvolta rafforzando e talaltra incrinando sottilmente il patto con lo spettatore, la sua credulità.

A ben guardare, infatti, c’è anche un altro livello in cui questa mostra può essere letta: quello specifico dell’arte. Hirst eccede volutamente nel barocchismo e nel kitsch. Se pensiamo alla letteratura potremmo riferirci alla “decadenza” – alle stanze sovrabbondanti di Huysmans e D’Annunzio – che poi è il carattere di tutte le età che volgono al termine. L’arte diventa un grande spettacolo, un colossal, una Gardaland per le masse di turisti bulimiche. Si trasforma in qualcosa d’altro rispetto alla sua natura originaria, forse preludendo al suo termine, almeno per come l’abbiamo conosciuta. Ma come sempre, Hirst gioca con il sistema, ne usa le componenti – la produzione costosissima e il mercato milionario – creando una grande opera d’arte nel momento stesso in cui ci mostra la sua fine.

 

Fabio Cavallucci

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