Una centrale idroelettrica di inizi ‘900 situata fra le montagne trentine è il luogo che fa da cornice a “Drodesera”, il festival per le arti performative che dal 1980 rappresenta una delle rassegne italiane più attente all’articolato ambito delle live arts. L’edizione di quest’anno è titolata “Supercontinent” e si propone di edificare una neo-geografia, una “Pangea” in cui a prosperare sono identità ibride, incerte, dirottate, che sfuggono alle griglie del “canone occidentale” e ai paradigmi del politicamente corretto.
Il programma di “Supercontinent” si compone di proiezioni cinematografiche, prime nazionali di videoarte e, naturalmente, performance (tra gli artisti invitati: Roberto Fassone, Riccardo Giacconi, Alessandro Sciarroni, Francesca Grilli, ecc.).
A fare da apripista a questo macro-evento da cinque anni è Live Works Performance Act Award, una residenza dedicata alle pratiche live che, attraverso il formato dell’open-call, si indirizza ad artisti emergenti. Più di trecento sono state le candidature ricevute quest’anno, dieci invece gli artisti selezionati – scelti da un team curatoriale composto da Barbara Boninsegna, Simone Frangi, Daniel Blanga Gubbay, e da un board di professionisti esterni di cui fanno parte Lorenzo Benedetti, Vincent Honorè, Eva Neklyaeva, Manuel Segade e Christine Tohmé – a cui viene affidato un piccolo budget per produrre una performance da presentare nei tre giorni di resa pubblica.
Più che la qualità dei lavori presentati a essere particolarmente incisiva è la volontà dei curatori di lasciare da parte la nozione di performance per assumere quella più completa di live art – che abbraccia la sound art, la text-based e lecture performance, il multimedia storytelling, le pratiche coreografiche e i progetti workshop-based. Performance è un termine che purtroppo, sempre più spesso, è associato all’idea di produzione forzata e presentazione pubblica del corpo, come dimostra Sven Lütticken nel suo saggio “General Performance” (e-flux Journal, n.31, gennaio 2012), contestualizzandolo nel sistema economico neoliberale: “nell’economia di oggi, ‘performance’ non si riferisce solamente alla produttività del lavoro, ma anche a un’effettiva, quasi teatrale auto-presentazione, un’auto-performance in un’economia dove il lavoro è diventato più dipendetene a fattori immateriali”. In quest’ottica risulta doveroso riconoscere il successo della decisione da parte del board curatoriale di Live Works di non selezionare un vincitore (a cui poi sarebbe andato un premio in denaro) ma ridistribuire il budget, in modo da osteggiare competizioni e classificazioni vincitore/vinti.
Per entrare più nel vivo in alcune delle pratiche degli artisti selezionati (Alok Vaid-Menon, Claudia Pagés Rabal, Gaetano Cunsolo, Kent Chan, Lisa Vereertbrugghen, Madison Bycroft, Mercedes Azpilicueta, Mohamed Abdelkarim, Rodrigo Sobarzo de Larraechea e Urok Shirhan) non si può fare a meno di notare un’attenzione generale verso le questioni di genere, le micro-narrazioni e le condizioni periferiche e marginali. L’artista irachena Urok Shirhan, ad esempio, con la performance Empty Orchestra (titolo che riprende l’etimologia della parola karaoke: kara significa “vuoto”, mentre ōkesutora significa “orchestra”), ha doppiato in arabo canzoni di star internazionali – da Beyoncé a Mariah Carey – per svelare come l’identità si possa legare a linguaggi e suoni, oltre che a luoghi e confini.
Gaetano Cunsolo, unica presenza italiana, ha portato una performance intima e meditata: nel corso delle tre notti di Live Works ha costruito e poi distrutto una casa composta da pezzi di legno, rifiuti plastici e ferraglie trovate nella periferia di Dro. Soon as night falls… I’ll start to built è una riflessione sul demanio, e sul fatto che costruire una casa in una notte in diverse culture sia considerato di buon auspicio, forse perché è nello spazio vacuo del crepuscolo che può trovare campo una nuova presenza.
Più di petto è stata la performance dell’artista transgender Alok Vaid-Menon. Questi, dopo essersi prodigato in un lungo, isterico, monologo sugli stereotipi attribuiti ai transgender, ha iniziato a manifestare il proprio stato di asia su diversi social come Tinder e Instagram, scrivendo ai propri “match” invettive contro la discriminazione e la violenza, e pubblicando selfie sorridenti con una didascalia all’immagine intrisa di paura e solitudine. L’operazione era visibile grazie a un dispositivo tecnico che collegava il suo smartphone a un maxischermo, svelando il tema – negli ultimi anni spesso dibattuto – della manipolazione della verità nella comunicazione del sé.
Anche Rodrigo Sobarzo de Larraechea ha messo alla prova la pazienza del pubblico in uno spettacolo acquatico poco consistente, che ha sfruttato le suggestioni del buio per presentare un’indagine grossolana sull’estuario e la geologia tout court.
Operazione molto strutturata invece quella di Mohamed Abdelkarim, che ha messo in scena l’ultimo capitolo di un progetto iniziato nel 2014, Dramatic episodes about Locomotion, un complesso archivio di libri, cartografie, poesie, immagini, tracce musicali e oggetti che incrociano aneddoti personali e narrazioni fittizie a eventi storici così da mettere in crisi il materialismo storico e il concetto stesso di verità. Mercedes Azpilicueta infine con Yuko & Justine (rispettivamente Yuko Yamaguchi, colui che, sopravvissuto a Hiroshima, descrisse il momento esatto della caduta dell’ordigno, e Justine, la protagonista del libro Justine ou les malheurs de la vertu del Marchese de Sade) ha creato uno script immaginario interpretato da alcuni abitanti del luogo. Ancora una volta si tratta di un tentativo di costruzione di un racconto soggettivo, instabile, dove memoria individuale e racconto collettivo s’incontrano, si contaminano e si ibridano.