Giulio Scalisi Tile / Milano

15 Novembre 2017

Ispirata all’omonima traccia firmata nel 1973 da Amedeo Tommasi per l’LP Ittiologia, “Alghe Romantiche” è la prima personale di Giulio Scalisi, presso Tile Project Space.
Il titolo della mostra contrasta quasi ironicamente il proprio contenuto, ispirato a un ambiente acquatico, ma in realtà composto da elementi inorganici e all’apparenza impermeabili. All’inizio ci si imbatte in tre sculture autoportanti, ognuna delle quali sorregge un essere bidimensionale, sorridente ma inerme, a sua volta portatore di altri ospiti, una serie di nove meme stilizzati; vicino a loro c’è una sintesi di zattera, sospesa e quasi trasparente, dalla quale colano strisce in pvc, forse le stesse alghe, ora immobili a qualsiasi turbamento.
La posizione della zattera suggerisce che lo spettatore si collochi appena sotto il pelo di un’acqua limpidissima, che avvolge silenziosamente lo spazio scivoloso, trasformandolo in una piscina abitata da presenze asettiche. La dimensione sottomarina diventa quindi metafora della condizione contemporanea, fatta di icone e dinamiche riflettenti e sterili. In fondo alla sala un video, intitolato Shipwrecked (2017), ci trasporta in una sequenza di esplorazioni abissali, detriti mastodontici e vagabondaggi solitari, “un futuro mosso da correnti che navigano al di fuori della portata dei nostri occhi”, come lo definisce Scalisi. Il video, ispirato a due scritti –Corpi Celesti di Anna Maria Ortese e Fondamenta degli Incurabili di Iosif Brodskij – descrive il viaggio non come uno spostamento spaziotemporale che porta all’abbandono del passato, ma piuttosto come l’abbandono stesso di una certa visione del mondo in favore di orizzonti più vasti, che rende però ignari del proprio cambiamento e di conseguenza immemori della propria dimensione (“A foggy feeling of vagueness on everything: not knowing how we changed so much; what we wanted before, what we had hoped for from this journey”, per riprendere le parole dello script). Il video tratta inoltre del paradosso di vivere in una quotidianità la cui dimensione è, al contrario, limitata dalla costante mediazione visiva, che induce l’occhio ad una condotta narcisistica (e ancora, “What is a tear, if not the way through which the retina admits its own inability to retain the splendour and beauty of an elusive and fallacious present moment”).
Il naufragio si svela così nell’impossibilità di vivere il presente in maniera diretta e viscerale, rimbalzati da superfici attraenti e fredde al tempo stesso.

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