Il cinema di Józef Robakowski, a tratti materico, a tratti autobiografico, inesorabilmente performativo, mette alla prova i confini del medium filmico concentrando e riducendo i suoi elementi costitutivi. La vasta retrospettiva a lui dedicata riflette sulle tematiche affrontate in quarant’anni di produzione, evidenziando l’interesse, da un lato, per la materialità del supporto cinematografico e la complicità fra la videocamera e il corpo del regista, dall’altro, per la narrazione della storia, pubblica e privata, intima e ufficiale.
In Test I (1971), una serie di cerchi bianchi si alternano velocemente sullo schermo nero, accompagnati da battiti sordi e violenti che ne scandiscono la regolarità opprimente. Forando la pellicola e graffiando manualmente la banda sonora, l’artista lascia che sia la meccanica del proiettore a creare il film, espandendo il frame verso una dimensione scultorea. In Esercizi per due mani (1976), l’artista utilizza due cineprese come estensioni prostetiche per ampliare la propria visione stereoscopica, filmando così la realtà attraverso un filtro psicomotorio. Fra i due video, il ritratto dell’artista, in posa vittoriosa con le cineprese in mano, diventa un monumento alla sinergia fra corpo e macchina da presa.
Lentiggini (2014) mostra un primo piano ravvicinato di Robakowski che, intento a raccontare il dolore e la vergogna provati da bambino per le sue efelidi, ne rimarca l’assenza sul volto maturo disegnandole con un pennarello nero. Questo cinema, da lui definito come “personale”, è uno strumento per dare spazio alla storia privata del corpo e della coscienza, che scorre in parallelo a quella pubblica e condivisa. Questa è affrontata in Dalla mia finestra (1978-1999), dove il cortile di cemento di fronte al proprio palazzo è il palcoscenico su cui si succedono le varie stagioni politiche della Polonia, accennate solo attraverso i comportamenti dei suoi vicini e concittadini, che vengono raccontati dal regista con una narrazione carica di realismo poetico.