Protagonista di “Look at me”, prima personale del duo Luisa Mè presso T293 a Roma è l’energia prorompente: l’esplosione che precede o succede la violenza del moto. Le grandi tele e le sculture poggiate a terra, animano l’ampio spazio della galleria che sembra trasformato in un mosh pit inspiegabilmente silenzioso, facendo presagire l’arrivo di una tempesta.
I volti delle figure, che riecheggiano palesemente una conoscenza – e una maestria tecnica – della pittura classicista di Mategna e di Bellini, sono cinti da aureole. Le espressioni sono contorte dallo sforzo che compiono i loro corpi cinti da aderenti tute fluorescenti e tacchi a spillo, mentre combattono una battaglia con i confini del telaio per irrompere in tutta la loro potenza nella sala espositiva. I protagonisti delle tele sono metaforici martiri contemporanei e semi-umani che sembrano intenti a compiere un rito catartico, un’azione di massima concentrazione fisica e mentale contenuta dai limiti del quadro e al contempo proiettata nello spazio. Le abili quattro mani degli artisti riescono a tradurre, con grande potenza iconografica la forza e il vigore potenziale che caratterizza l’immagine dell’inquietudine.
Ibride e animate dallo stesso senso di movimento e vitalità sono le sculture zoomorfiche realizzate con resina e creta poggiate a terra. Con il becco da gru, il manto maculato di un serpente, la singola gamba che termina con una scarpa femminile, queste aliene creature puntano il volto verso l’alto, tenendo il tacco ben piantato a terra, assumendo così una posa plastica esplosiva. La sensazione è che stiano per scattare in piedi, balzare da un momento all’altro verso lo spettatore per fuggire.
Nulla è rassicurante in “Look at me”. Luisa Mè sembra volerci parlare del concetto di evasione dalla condanna all’immobilità. In una società caratterizzata da un eccesso di pienezza, i protagonisti dell’immaginario del duo di artisti, si scuotono dall’abbondanza superficiale. I contro-movimenti dei corpi scomposti, carichi di forza visiva esprimono un desiderio di fuga da ciò che comunemente viene considerato confortante. Contenuti, o meglio forse intrappolati, ancora in uno spazio delimitato, l’impressione è che basterebbe premere un bottone per scatenare la rivoluzione.