Una spugnosa loofah egiziana, acciaio, gesso, juta, sabbia, pigmento e tende da doccia. E ancora: vetro, acciaio, gesso, juta, sabbia e pigmento.
I livelli degli spazi di Ribot sono costellati da elementi legati chimicamente come portali; demarcazioni costruite senza rifiniture delineano riti e luoghi di passaggio. Qui ogni indagine sulla scultura si estende, irregolare, alla superficie, ai confini oscurati dalle cose, su quel pianeta che le “stazioni” di Oren Pinhassi chiamano tempo. “Nature calls”, titolo della personale curata da Domenico De Chirico, accompagna il visitatore, dalla superficie fino al nucleo; dalla propria componente liquida fino alla delicata atmosfera che la circonda, sulle tracce di un’accurata escursione tridimensionale. La mostra è stata concepita secondo una concatenazione di otto sculture recenti. Questi lavori, come spiriti fissi, rivelano i loro contorni senza appartenere e senza riflettere sull’apparenza delle superfici, evitando persino l’idea dello specchio (Disappointment n. 1 [2017]) posto a parete, allestito a inizio del percorso.
“Nature calls”, infatti, esclude e assottiglia, fino alla sua scomparsa, il ricordo della figura umana (Drip Dry [2017]) che non si manifesta nemmeno quale vigile richiamo macabro di una commemorazione del corpo oppure quale attivatrice di un bisogno (Urinal, Milan 1 e Urinal, Milan 2 [2017]). L’uomo, ospite eventualmente atteso, sembra corrispondere al richiamo di un impulso, esattamente, ironicamente solidificato, incarnato dalla materia cavernosa di Cactus Tree (2017). Inoltre, la quotidianità, testimoniata per porzioni di vita non vissuta, in Arm &Hammer (2017), spinge lo sguardo ad ampliare il campo di ricerca nei confronti di improvvisati elementi extraterrestri. Pinhassi, infatti, ingloba nell’oggetto dei propri studi tutti quei corpi domestici, dall’apparenza vulcanica e approssimata, per i quali diventa, talvolta, impossibile utilizzare i metodi di studio e approcci teoricamente terrestri. “Nature Calls” rispetto ai recenti progetti espositivi di Pinhassi, conferisce al racconto sui bordi del mondo una verità astratta che trasforma i tremori di ogni linea in una presa di distanza.