“Tesoro, nulla può sopravvivere se non muore qualcosa”. Da questa frase, pronunciata da Clark Gable a Marilyn Monroe in The Misfits, prendono le mosse i quattro racconti di Mattia Agnelli che annunciano una nuova stagione di “In Residence”: una serie di “cartoline” che ritraggono personaggi abbandonati a loro stessi, senza possibilità di scelta, nel riverbero amaro di un Midwest che decide per tutti, per dirci che ci sono destini peggiori della morte.
Coriandoli di un rosa fosforescente di forma ellittica vengono sparati nel cielo azzurro novembrino; a ricadere sull’erba ci mettono più tempo del previsto. L’asta della bandiera a stelle e strisce è incastrata in una fessura di un pezzo di legno marcio. Giovani marines, dispiegati lungo la staccionata, tengono in mano la bianca estremità dei party popper ad aria compressa, le braccia ormai abbassate, i volti compiaciuti. Uno di loro, fuori dal gruppo, abbraccia Ruth mentre i coriandoli ricadono sulle loro spalle. Il mento rasato a contatto con i residui lanuginosi di un indumento lavato troppe volte provoca al marine una sorta di ostilità, di materna arrendevolezza; una malinconia in cui sperava di non imbattersi. Uno dopo l’altro, anche tutti gli altri soldati abbracciano Ruth, in un silenzio scolpito su volti sorridenti.
In giardino non c’è più nessuno e lei è ancora lì che indugia sulla porta. Nel palmo della mano sinistra tiene una piccola scatola di velluto rosso, aperta; con gli occhi osserva la medaglia e poi alza lo sguardo, commossa, come se loro fossero ancora là. Si lascia la porta alle spalle e rientra in casa. Sul tavolo della cucina piatti di carta, con il rimanente delle due torte, sono sparpagliati un po’ dappertutto; di biscotti nella ciotola di plastica ne sono rimasti pochi. Prende le bottiglie di birra vuote e sistema tutto sul ripiano di marmo. Percorre il corridoio ed entra nella stanza da letto; apre il cassetto di un comò bianco e posa il cofanetto sopra un fazzoletto di seta, senza avvolgerlo. Il cassetto, nel richiuderlo, si inceppa, e Ruth è costretta a cambiare un paio di volte la traiettoria di reinserimento.
Prepara del caffè e nel frattempo squilla il telefono, risponde: è nonna Holly. Ciao tesoro mi spiace tu sia morta, passami la bimba che voglio parlare con lei e poi anche con Richard, voglio parlare con Richard, sta bene Richard? Si è ripreso dall’incidente? Ruth non sa mai cosa dirle, se non immaginarsi il giallo paglierino della stanza che Holly sta fissando, in quella struttura per pazzi, mentre nella sua mente vagano senza dimora ricordi inespressivi. Poi pensa al tempo ultimo che esclude frivolezze d’ogni genere, e allora l’asseconda. Eccomi qui, sono la tua piccola, ciao nonnina cara. Papà si sta lavando, le stampelle non le porta più; mamma è in cielo, io e lui ce la caviamo alla grande. A presto nonna, ciao ciao.
Il tramonto scende piano riempiendo con sfumature ocra-vermiglie lo spazio tra un ramo e l’altro della robinia spoglia che sta nel giardino.
C’è solo un’altra casa nella strada cieca. È scarsamente illuminata da una luce fredda, flebile, che funziona a intermittenza, proveniente da un faretto quadrato appena sopra la porta d’ingresso. La luce rianima sporadicamente la sagoma grigio topo di una bassa recinzione metallica.
Ruth si stringe nel maglione e guarda fuori, con uno sguardo assente e per certi versi sconcertante: è il dono essenziale dell’immaginazione, che mai come in questo istante, e forse per la prima volta, la condanna a quello che inevitabilmente sarà il resto della sua vita. Si passa la mano sulla pancia, come se lì dentro non ci fosse un bel niente. Non ha ancora deciso che nome darle.