Bruno Munari. The Lightness of Art Peter Lang / 2017

12 Giugno 2018

Scrivere di Munari, artista allergico alle etichette e alla ripetizione, profondo nella sostanza e leggero in superficie, rivoluzionario senza essere mai ideologico, risulta sempre un po’ difficile. Al punto che, in presenza di una critica disattenta, Munari è stato spesso costretto a raccontarsi in prima persona, per esempio nel volume Codice Ovvio edito per Einaudi nel 1971. Dopo lo spettacolare recupero degli ambienti di Lucio Fontana al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, forse anche per Munari è giunto il momento di porsi alcune lecite domande sulla rilevanza storica del suo lavoro.
Provano a rispondere a queste domande gli autori di una recente antologia apparsa nella collana “Italian Modernities” per l’editore Peter Lang, curata da Pierpaolo Antonello (University of Cambridge, UK) assieme a Matilde Nardelli (University of West London) e Margherita Zanoletti (Università Cattolica di Milano). Un volume di oltre quattrocento pagine suddiviso in quattro sezioni.
Nella prima parte Antony White (University of Sidney) tratteggia proprio un raffronto tra due vite parallele, quelle di Lucio Fontana e di Bruno Munari. Entrambi accomunati dalla necessità di spazializzare l’arte per portarla ad una dimensione spettacolare. L’autore sostiene che le vite di questi artisti si intrecciano e hanno molti punti in comune.
Ara Merjian (New York University) approfondisce le sperimentazioni che spingono Munari a andare oltre il legame iniziale con il futurismo. L’autore formula alcune ipotesi su come possono coesistere in un singolo autore il credo razionalista nella progettazione e gli imperativi distruttivi di Dada e del Surrealismo.
Nella seconda sezione spicca il lungo saggio di Antonella Pelizzari (Hunter College, NY) dedicato in gran parte alla raccolta Fotocronache del 1944, un volumetto dove Munari smonta tutti i trucchi del grafico e del fotoreporter, evidenziando il valore comunicativo della fotografia, paritario, o forse superiore, a quello della pagina scritta.
Jeffrey Schnapp (MetaLab Harvard) analizza quello che viene definito il teatro della pagina di Munari. In modo quasi complementare Margherita Zanoletti analizza due caratteristiche del linguaggio di Munari: l’ibridazione stilistica tra differenti tipi di scrittura (teorica, creativa, poetica) e le costanti contaminazioni verbo-visuali.
Nella terza sezione Matilde Nardelli ci fa notare che tutti i mobiles di Munari, nelle sue varie forme, possono essere interpretati come delle “macchine da cinema”, dove la luce e il movimento casuale delle forme permettono di generare delle sequenze di immagini. Nel cinema, dove normalmente si miniaturizza e si ingrandisce, accade esattamente quanto avviene nelle proiezioni di Munari, presentate al MoMa di New York nell’autunno del 1955.
Pierpaolo Antonello esamina invece l’importanza teorica, per molti astrattisti, della natura come laboratorio di progettazione sperimentale, evidenziando come Munari sia da sempre interessato a mettere in relazione la struttura con l’evoluzione.
L’ultima sezione è dedicata agli interventi di chiaro segno politico-sociale. In particolare Teresa Kittler (University of York) analizza la manifestazione artistico-ecologista Sagra Fuoco e Schiuma realizzata a Sant’Angelo Lodigiano nel settembre del 1970 contro l’inquinamento del fiume Lambro.
Insomma togliete a Munari ogni gabbia interpretativa costruita dalle varie discipline e vedrete che dietro la sua apparente semplicità c’è un mondo complesso.

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