Si sentono i rumori della strada, e l’ultimo soundcheck del Dude Club. Cally Spooner vuole che le finestre del nuovo spazio di Zero…, alla periferia di Milano Sud, restino costantemente aperte in modo che i suoni provenienti dall’esterno siano accolti dall’ambiente espositivo.
“Dead Time” è la materializzazione di un’attesa; un lavoro di ricerca che l’artista porta avanti da tre anni e che cristallizza in uno script da percorrere.
Una parete di quindici metri segna l’architettura della galleria e divide in due lo spazio: siamo di fronte a una scena che assomiglia al backstage di un film e siamo chiamati a immaginarne gli esiti.
La sceneggiatura di quella che l’artista definisce una crime novel – accompagnata dalla registrazione di un coro di voci non professioniste che, come un mantra, ripete “mother, mother, mother” – è composta da una serie di fogli sciolti raccolti in bustine di plastica disposte in successione sull’ampia parete bianca. Si tratta di una collezione di errori e ripensamenti. Come le mail che Spooner scrive a Kevin Spacey, ma che poi cancella o non spedisce, o la corrispondenza con l’assistente di galleria relativa al posizionamento dell’installazione. Ma è anche un archivio mobile e modificabile, in cui riesaminare i progetti di opere prodotte in precedenza, come il lavoro Notes on humiliation (2017) – una serie di cinque stampe pigmentate su carta in formato A2; o anticipare la forma di mostre future come quella in programma il prossimo anno all’Art Insitute di Chicago.
Gli elementi che compongono Dead Time andrebbero interrogati in quanto “quasi oggetti”, per riprendere un concetto sviluppato da Michel Serres in Le parasite (1980). Ovvero “oggetti di relazione”, che guadagnano significato in virtù della rete di connessioni all’interno della quale sono inscritti. Tuttavia, per cogliere l’operazione dell’artista è necessario ripensare al titolo della mostra: “Dead Time”. Il termine definisce il tempo di inattività che investe i dispositivi di misurazione o i sistemi di registrazione dopo aver compiuto una determinata operazione e immediatamente prima l’inizio di un nuovo rilevamento. I temps mort sono anche quelli del cinema di Michelangelo Antonioni, quando con la camera, ostinatamente, indugia su atmosfere vuote e silenti o insiste sui gesti minimi dei suoi “stanchi” personaggi.
Spooner concretizza queste sospensioni improduttive in un palinsesto narrativo che consente di intravedere, comunque, un dietro le quinte, un tempo morto che ci avvicina davvero alla sostanza delle cose, prima che giunga inesorabile la noia mortale, e così irreale, del senso.