Due grandi tavoli ricoperti da un centinaio di fotografie a colori formato A4 campeggiano nella sala d’ingresso della mostra “TO WAKE UP THE LIVING, TO WAKE UP THE DEAD”. Alcune fotografie sono sparse a terra, le altre sono sparpagliate sui tavoli, che ricordano dei banconi da lavoro di un laboratorio fotografico. Il resto della sala è immerso nel vuoto e nel silenzio, conferendo un’aura di mistero alla presenza solitaria delle tante immagini. L’installazione invita a toccarle, a guardarle, a scoprire i nomi maschili scritti in caratteri cubitali sulle lapidi di marmo rappresentate nelle fotografie, a chiedersi di chi sono quei nomi.
Le fotografie si possono prendere e portare via, unA modalità ideata da Marcella Vanzo per attivare un processo relazionale con il pubblico e far vivere nuovamente sotto altra forma la memoria storica di quei centomila soldati italiani caduti durante la Prima Guerra Mondiale sulle alture carsiche, sepolti nel grande Sacrario di Redipuglia costruito durante il Fascismo. L’installazione della prima sala rappresenta un preludio alle opere delle due successive, dove il visitatore coglie appieno il significato dell’intervento. Mentre nella seconda stanza alcuni ingrandimenti appesi alle pareti mostrano altri nomi – che s’imprimono come un monito negli occhi di chi guarda – l’ultima sala è dedicata al lavoro che ha dato origine alla mostra, un video proiettato insolitamente nella parte superiore della parete, sopra la porta d’ingresso. Dopo alcuni minuti in cui la telecamera indugia sui particolari della monumentale architettura razionalista del cimitero, nel silenzio rarefatto del luogo erompe l’assolo musicale di un brano acustico, eseguito alla batteria da un musicista rock. La performance rompe gli schemi dei rituali funerari e crea un cortocircuito tra morte e vita, celebrazione e sacrilegio. Con questo progetto poetico, curato da Matteo Bergamini, l’artista supera la pratica della rivisitazione storica tout court e la narrazione documentaria ideando invece un dispositivo temporale, catartico, che attiva una diversa memoria. I simboli celebrativi dell’architettura di regime – visibili alle spalle del batterista, come la parola “presente” ripetuta più volte sui simulacri – collidono con la leggerezza e la vitalità di un inno che pare voler ringraziare i presenti.