Un telefono e un labirinto. Le astrazioni schematiche di Peter Halley di

di 7 Maggio 2019

In principio c’era un telefono. E questo telefono stava squillando. E nessuno rispondeva. Poiché non c’era nessuno nella stanza. (Ma – aspetta un attimo – perché c’è un telefono? È qui che deve stare? Potrebbe essere un trabocchetto o una specie di virus, che mette in disordine i dati e mescola tutto? Dovremmo forse riavviare, per interrompere lo squillo e, così facendo, ricominciare da capo?)

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Inizialmente, non c’era né uno squillo né un telefono (confutazione della premessa iniziale completata). C’era in realtà una stanza. O un appartamento. Con finestre e tutto quanto. E ci sarebbe dovuta essere anche una casa – se continuiamo ad adattare la nostra visione e a percepire le cose in modo più globale – e una città. Sì, all’inizio, ci sarebbe stato un contenitore per il telefono. Un contenitore architettonico, per essere più precisi. Un contesto. Qualcuno avrebbe dovuto installare il telefono da qualche parte, prima che potesse effettivamente suonare. A proposito, la stanza era quadrata o rettangolare – naturalmente, non era né un cerchio né un triangolo, il che significa nessun Pantheon o piramide. Visto che, per vivere in uno di questi luoghi, dovresti essere più un Dio che un essere umano. O almeno deceduto da un bel po’. La stanza non era particolarmente grande ed era abbastanza semplice, con pareti semplici, forse addirittura bianche, o forse giallo brillante o blu scuro. Credo si trattasse di un appartamento newyorchese qualsiasi, niente di speciale – di cui ce ne sono tanti che si assomigliano se si tolgono tutti i mobili e i ricordi personali.

A proposito di ricordi, nonostante le pareti fossero in genere lisce, è possibile che vi fosse stato aggiunto uno strato granuloso: immagina di essere a ridosso degli anni Ottanta e di essere appena tornato a New York da, non saprei, New Orleans? E lo stile delle pareti che hai visto lì – poiché vivevi in una tipica casa della classe media, o forse i tuoi amici vivevano in tipiche case della classe media, o forse perché tutti i giorni camminavi in mezzo a tipiche case della classe media – riesce ancora a catturarti. Quindi avresti potuto vedere i muri dell’appartamento di New York come quelli dei tuoi ricordi, con una consistenza densa, che li faceva quasi vibrare se continuavi a guardarli. La stanza era legata all’idea di prigionia poiché ti eri appena trasferito e non avevi ancora creato alcun attaccamento. La stanza, quel rifugio, era quindi l’inizio di tutto. Forse anche alcuni libri – Foucault, Baudrillard, et al. – che, ovviamente, hanno accentuato l’idea stessa di isolamento. Ma, a dire il vero, la stanza emanava una sensazione piuttosto ambigua: a volte sembrava qualcosa di positivo, quasi vitale, che offriva un momento di tranquillità, cruciale per chi desidera nascondersi e ricaricarsi. In una cella capace di auto-rigenerazione. Ma altre volte sembrava una prigione, soffocante. Quindi, anche se non c’erano griglie alle finestre e c’era una bella vista, le sbarre erano lì, invisibili. Proprio come se fossero lì sulle finestre di tutti gli altri condomini. Celle isolate. Ma poi, un telefono squillò nell’appartamento del vicino. Qualcuno tirò l’acqua. Una luce si accese, fuoriuscendo da una finestra sul lato opposto della strada. Tutto era interconnesso. Tramite fili, tubi. Tramite canaline a forma di L.

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Il telefono non sta squillando. Ma la stanza è ancora lì, anche se potrebbe trattarsi di un’altra. Lo è davvero? Riesci a trovare le differenze anche se tutte le stanze sono così simili? Isolate tra loro e/o interconnesse da canali invisibili di comunicazione, sembrano sommarsi, pezzo dopo pezzo, riprodotte all’infinito. Come se fossero tutte copie – riflessi permanenti? – di un modello e del modello stesso che ripetono. La loro presenza, tuttavia, è piuttosto un enigma. Non c’è da stupirsi del fatto che compaia inevitabilmente un “perché”, entrando nell’equazione. Per far sì che la stanza esistesse, ci sarebbe dovuto essere qualcuno che la immaginasse e poi progettasse, trasformando un modello – un’idea geometrica o una forma – in un’esistenza tridimensionale palpabile. Scolpendo con cura le sue pareti ruvide. Quindi, prima del telefono e del suo squillare insistente, prima della stanza e del suo interno tattile, avrebbe dovuto esserci un architetto. O, se vogliamo parlare di questo architetto in termini metafisici: il terzo dei quattro principi primari di Aristotele, una causa efficiente.

E poi, c’erano le bozze dei cartoni animati, gli ottanta schizzi degli anni Ottanta, che sarebbero rimasti soltanto schizzi anche se a un certo punto, con il cambiare dei media, sono stati investiti di grande importanza, passando dall’essere disegni a stampe riproducibili digitalmente. Scherzando, esploravano ossessivamente una serie limitata di schemi: quadrati contro griglie, ovvero case e celle contro prigioni e finestre delle prigioni; piramidi e spirali angolari disegnate sotto una linea dell’orizzonte, rivolta a tombe ermetiche (ma anche al disegno capitalistico dell’essere) con i loro labirinti nascosti (o correnti sotterranee dell’opposizione); tavolette dei servizi igienici e sistemi di canalizzazione contro esplosioni, alludendo a linee infinite “che convogliano” la realtà e le informazioni che, rispettivamente, si propagano attraverso di esse ad alta velocità. Essendo molto specifici e letterali, non sufficientemente universali, questi schemi complessi furono poi trasformati per mezzo di una sintesi alchemica. Come risultato, sono stati ottenuti tre elementi primari – un quadrato, una griglia e un conduttore – guadagnando così potenza e velocità. Con l’aumento del loro livello di astrazione, potrebbero funzionare come simboli, capaci di riferirsi simultaneamente a più realtà, o come artefatti magici abbastanza potenti da legare il micro e il macrocosmo, così come erano in grado di legare una stanza e una città, una parte di un sistema e un sistema così com’è, sapendo che questi elementi sono stati catturati in una forma condensata, quasi compressa, di un ideogramma o di un diagramma di flusso. Quindi, utilizzando questi tre elementi come materiale da costruzione, sono iniziati i lavori. E così apparvero i dipinti – camere testurizzate bi-dimensionali o mappe di città viste dall’alto. Ripetendo la stessa struttura, i moduli cambiano a ogni ripetizione, perché il contesto stesso (il mondo contemporaneo che stavano cercando di riflettere) stava cambiando altrettanto. Quindi, sono state necessarie alcune modifiche importanti rispetto alle configurazioni iniziali. D’altra parte, ci sono dipinti in cui l’elemento conduttore è assente (The Prison of History, 1981), e ce ne sono altri, che compaiono negli anni Novanta (per esempio Web, 1995), in cui lo stesso elemento diventa quasi onnipresente, citando l’esplosione di informazioni all’inizio dell’era di Internet. In base al principio della ripetizione, in coppia con l’alterazione, i dipinti sembravano costruire una sorta di dedalo, che è tuttavia logico, poiché è pressoché impossibile sostenere che l’uso di un modello ripetuto e solo leggermente diverso sia l’unico modo possibile di costruire un labirinto.

Quindi il labirinto, sia prigione sacra, sia gioco – non poteva che essere altrimenti, dato che fin dal principio esso rappresentava proprio queste due cose: una prigione per un Minotauro e un gioco di sopravvivenza per coloro che venivano portati all’interno come parte di un rituale sacrificale –, si stava lentamente affermando, costituendo se stesso dipinto dopo dipinto. Ha moltiplicato le finestre con le griglie, le porte invisibili e i corridoi a forma di L, per non parlare delle sale o delle camere quadrate, che, a proposito, potrebbe ricordarvi il sogno di Boccaccio di un labirinto geometrico modellato da una sovrapposizione di quadrati e non da spirali circolari, che sembravano essere privilegiate al tempo. Nel mentre sono comparsi scritti – numerosi saggi sulla inesorabilità del contesto (che significa l’inesorabilità della realtà labirintica?). Il contesto rimane inevitabile anche per le presunte forme autoreferenziali. Tra i saggi, un testo in particolare (Notes on the Paintings, 1982) conteneva la chiave che poteva sbloccare ciascuna delle stanze del labirinto (i dipinti), senza però sbloccare il centro dell’edificio, poiché non poteva essere sbloccato così facilmente, giusto? Dopotutto, parlando di labirinti, non vi entriamo sperando in una soluzione rapida o una scorciatoia che ci permetta di arrivare direttamente al significato. In questo caso, non è nemmeno un vero e proprio labirinto, ma piuttosto un corridoio diretto, osservabile dal suo ingresso e simile a un semplice sillogismo, in cui una premessa conduce in modo trasparente a una conclusione senza ulteriori sofisticazioni o, se vogliamo parlare di loro in termini spaziali, a cambiamenti ambigui nella traiettoria. Entriamo nel labirinto in modo da poter esplorare lentamente la sua struttura in continua evoluzione e girovaghiamo un po’. In alcuni momenti ci fermiamo, sentendoci particolarmente spersi, e prendiamo tempo per mettere insieme gli indizi trovati lungo il cammino. In questo senso, il labirinto non riguarda solo un algoritmo o la ripetizione incessante di un modello. Il labirinto richiede una lettura attenta, perché, come un oracolo, “né proferisce né nasconde il suo significato, ma lo mostra con un segno”. La necessità della decifrazione ermeneutica, che spiega il senso arcano nascosto all’interno degli indizi, è implicita nella sua stessa origine.

Quindi, la strategia di costruire un labirinto sviluppatasi attraverso la creazione di alcuni ambienti “labirintici” che inglobano spazi già esistenti mentre (1) cambiano le loro proprietà architettoniche, come nella Schirn Kunsthalle di Francoforte, con la sua struttura circolare a due pieghe e il suo design di carta da parati concepito secondo un principio di ripetizione, cosicché i visitatori si trovano in ambienti tanto architettonici quanto informativi; oppure (2) creano un contesto per i dipinti, ad esempio, inserendoli in un gelido paesaggio digitale, uno skyline fatto di pesciolini d’argento pieno di fuochi d’artificio congelati o esplosioni ghiacciate, come alla Galerie Forsblom a Stoccolma, nel 2019; oppure (3) fanno entrambe queste cose, come un’installazione avvolgente alla Lever House, nel 2018, che mediante codici e narrazioni intrecciate, giocava con le idee di riflessione, permettendo al contesto circostante (simboleggiante il profilo di una città modernista come New York) di adattarsi paradossalmente all’interno di uno spazio infinitamente più piccolo del suo edificio iconico.

Infine arriviamo al punto in cui decidiamo che questo non è in realtà un labirinto, ma una scatola. Una scatola casuale. Non è nemmeno unica dal momento che ci sono molte file di queste scatole, tutte abbastanza simili. Ma – ecco il trucco – se per cambiare, osi pensare all’interno degli schemi e non ex contrario (sapendo che l’imperativo di “pensare fuori dagli schemi” è meno un assioma e più uno slogan convenzionale), cresceranno dei muri e compariranno incroci intermittenti. Finalmente un labirinto? Forse, ma anche una prigione e un tempio.

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Elena Sorokina