La futura società ecologica dovrà essere triste. Ma anche imperfetta, ambigua, improvvisata, confusa, vaga. Insomma, dovrà rivelare qualcosa di molto simile alla tristezza, qualcosa che sfugge all’immediata comprensione, che non si lascia afferrare. Dovrà essere proprio così perché la consapevolezza ecologica, come afferma Timothy Morton, è consapevolezza del fatto che le cose sono “intrinsecamente misteriose”.
Noi, esseri ecologici – l’ultimo libro dell’autore inglese pubblicato in Italia da Laterza – non è la solita discarica di informazioni sul cambiamento climatico, né una montagna di dati o “fattoidi” che intende fare leva sui sensi di colpa. L’obiettivo principale del libro, infatti, è quello di convincerci che non dobbiamo essere ecologici, perché siamo già ecologici. Di fatto, coesistiamo già con una miriade di entità non umane: il nostro stesso corpo, ad esempio, ne ospita milioni. Il punto, allora, è ammettere che siamo obbligati a fare i conti con l’esistenza di entità diverse da noi.
Le posizioni di Morton, infatti, comportano una messa in mora di quella modalità di pensiero, di quell’habitus che è l’antropocentrismo, in direzione di un ripensamento dei rapporti con le alterità macchiniche, vegetali e inorganiche: i differenti approcci che hanno descritto la crisi della scala umana nell’attuale fase storica – definiti con termini che gli studiosi fanno a gara ad aggiornare, da Antropocene a Capitalocene, da Technocene a Chthulucene – hanno in comune la “transizione verso un interessamento più consapevole ai non umani”. Rifiutare l’atteggiamento antropocentrico “non significa che detestiamo l’umanità e che vogliamo estinguerci”, sintetizza brillantemente l’autore, “significa capire come noi umani siamo inseriti nella biosfera in quanto esseri tra gli altri”. Tutto è interconnesso, non c’è nessun dualismo tra soggetto e oggetto, non c’è alcuna distinzione tra natura e cultura, siamo invischiati all’interno di una rete di rapporti in cui ogni entità si da innanzitutto come molteplicità. Inoltre, questo complesso network di interrelazioni senza margine e centro ha la paradossale caratteristica di essere sempre “meno della somma delle sue parti”. Ciò significa che non possiamo approcciarlo seguendo la retorica dell’olismo ecologico – che finisce per concepire la totalità delle connessioni come un’unità superiore –, ma dobbiamo pensarlo come un oggetto dello stesso ordine degli altri oggetti.
Tra le righe di questa particolare proposta emerge con forza il sostrato filosofico che alimenta le riflessioni dell’autore. La disarmante chiarezza con cui Morton porta avanti le sue argomentazioni, infatti, è sintomo di un saldo impianto teorico che ha le sue fondamenta nell’object-oriented-ontology di Graham Harman e nell’opposizione al circolo correlazionista inaugurata da Quentin Meillassoux.
Tuttavia, lo scarto critico risiede nel concetto di sintonia, ovvero la “sensazione del potere che esercita un oggetto su di me”. Secondo Morton, l’arte ecologicamente esplicita è un’arte che porta in primo piano la “solidarietà con i non umani” e il processo che dà avvio a questo “accordo” si struttura come una relazione dinamica e vivente con un altro essere. È una sorta di fusione, quasi una danza, e non si sa chi la conduce: anche quel qualcos’altro, infatti, si sta già sintonizzando con noi. Lo spazio ecologico della sintonizzazione è quindi uno spazio dai contorni imprevedibili, che disimpegna i nostri legami ordinari col mondo, che ci causa qualcosa, che ci comunica un “messaggio dall’altrove”. Forse vago, imperfetto, confuso, quasi-vero, triste.