Il bilinguismo radicale di Anna Maria Maiolino di

di 22 Maggio 2019

Raccogliere le più di trecento opere che compongono la grande mostra retrospettiva di Anna Maria Maiolino al PAC di Milano, è stata indubbiamente un’impresa titanica. Provenienti da musei e collezioni in Brasile, Stati Uniti ed Europa, la mostra è un viaggio attraverso sei decadi di intenso lavoro, allestito nei complessi spazi dell’unico polo d’arte contemporanea pubblico Milanese, che da qualche anno promuove una programmazione che guarda all’America Latina. Dal 2014 il PAC integra a una programmazione di artisti internazionali, una forte rappresentanza di note donne sudamericane tra cui Regina José Galindo (2014), Teresa Margolles (2018), e il prossimo anno Tania Bruguera. Il curatore Diego Sileo ha voluto rappresentare ampiamente la carriera di Maiolino, partendo da disegni degli anni Cinquanta fino a recentissime tele. Questa scelta deliberata evidenzia la prolificità dell’artista che, con solo l’aiuto di pochi assistenti, ha lavorato a mano tre tonnellate d’argilla per creare l’enorme installazione all’ingresso della mostra intitolata Finora (2019).

Anna Maria Maiolino, Sem título, dalla serie Ações Matéricas, 1995–2004. Inchiostro acrilico su carta, 100 x 200 cm. Courtesy Alexandre Meira.

Il concetto di viaggio torna utile per verbalizzare il tipo di esperienza che si prova percorrendo le sale della mostra. Maiolino nasce a Scalea in Calabria e nel 1954 emigra con genitori, fratelli e sorelle alla volta del Venezuela, l’unico paese a pagare il passaggio via mare per i migranti italiani all’epoca. L’artista racconta di questa esperienza come un trauma e, al contempo, una liberazione: un trauma per l’aver lasciato il proprio paese e la propria storia alle spalle con un’etichetta attaccata al bavero della giacca con la parola “immigrante,” che Maiolino si rifiuta di mettere e tiene in tasca; una liberazione per poter esprimere la propria soggettività e la propria sensibilità al di fuori di schemi e regole predisposti da un contesto di appartenenza. Fin da quel momento, Maiolino assume un’identità dislocata o sdoppiata che la accompagnerà anche nel suo percorso artistico. Maiolino si stabilisce a Rio de Janeiro nel 1960 dove velocemente conosce moltissimi giovani artisti tra cui Lygia Clark, Hélio Oiticica, Lygia Pape, Antonio Manuel, Rubens Gerchman e molti altri. Il clima politico brasiliano dell’epoca era caratterizzato da un impeto Sviluppista, ovvero un tipo di ideologia economica diffusa nelle Americhe (d’accordo con uno spirito Pan Americano) che imponeva lo sviluppo economico come obiettivo primario di ogni politica governativa. Il Brasile sembrava oggetto di un miracolo modernista, anche grazie alle politiche di Juscelino Kubitscheck, il quale decise di costruire una nuova capitale, Brasilia, al centro esatto del paese per inaugurare una nuova era di progresso (“Cinquant’anni di Progresso in Cinque” era il suo slogan elettorale). Seppur con lo scopo di proiettare il Brasile nel cosiddetto primo mondo, Kubitscheck si indebitò con il fondo monetario internazionale, fece scattare un’inesorabile processo d’inflazione perdendo la fiducia dell’elettorato. Le precarie condizioni economiche del paese causeranno l’insediamento di una dittatura militare nel 1964 che durerà fino al 1985. Gli Stati Uniti sostengono il regime che garantisce i loro investimenti nel paese.

Lo slancio creativo di molti artisti a partire dagli anni Cinquanta in Brasile venne codificato all’interno dell’utopia modernista catturata a Brasilia, alla quale molti aderirono seguendo i principi dell’Arte astratta e geometrica. Questo stile era allineato in parte con il Costruttivismo Russo di Malevich e declinato attraverso il concretismo europeo di Max Bill, il quale vinse il premio per la scultura alla prima biennale di San Paolo nel 1951 diventando un importante riferimento nella storia dell’arte brasiliana. “Per noi, approcciare il popolare significava cercare le nostre radici”, afferma Maiolino ¹. Infatti, insieme a molti della sua generazione, Maiolino si trova a dover fare i conti con una tradizione astrattista che aveva visto il sorgere di importanti movimenti quali il Concretismo paulista e il Neo-Concretismo carioca. A fronte del fallimento di un progetto modernista all’inizio degli anni Sessanta, anche loro vollero modificare la loro estetica per esprimere i più alti ideali di inclusione sociale e progresso. Anche se lo stile e le tecniche adoperate sono sempre distinte, l’artista condivide un ethos creativo che la porta a sperimentare con tecniche appartenenti alla cultura popolare – visibile in riferimenti ai cordels, ovvero xilografie accompagnate da brevi poesie o filastrocche d’intrattenimento comunemente trovate nei mercati nordestini brasiliani.

L’artista adotta la xilografia per avvicinarsi a un lessico visivo popolare, ma ritrae figure antropomorfe, spesso senza occhi e naso, con bocche aperte, dentate, pronte a divorare, e con gli organi dell’apparato digerente esposto. Michael Asbury scrive diversi testi su queste opere di Maiolino in cui vede espressi i principi del Manifesto Antropofagico, scritto da Oswald de Andrade nel 1928². Tuttora un importante palinsesto della retorica brasiliana, il manifesto dichiara che la cultura Brasiliana è il risultato di un processo di cannibalizzazione di diverse culture che vengono mangiate, digerite ed espulse in forma rinnovata. In un’intervista, Maiolino riflette sul processo di digestione culturale e sulla divisione tra corpo e mente e sulle differenze tra pensiero cerebrale e pensiero emozionale (di pancia)³. Spiega, “tutta la mia energia era spesa cercando di diventare un individuo. L’esistenziale e l’arte formavano un corpo angosciato. La mia vita era dominata dall’ansia, dai dubbi, anche se desideravo partecipare in quel momento di grande effervescenza politica, sociale e artistica…”. Da non dimenticare le difficoltà che incontra Maiolino ad asserirsi come donna artista in quegli anni.

Solo una volta separata da suo marito nel 1971, mentre lavora per una fabbrica di tessuti a Rio de Janeiro e accudisce i suoi due figli, riesce a dedicarsi appieno alla sua opera che verrà soltanto riconosciuta dal mercato nel nuovo millennio. Oggi, aggiunge che quello sforzo di divenire era anche dato dalla sua esperienza migratoria che l’aveva stimolata a costruirsi nuove radici. Il linguaggio che sviluppa allora trova fondamento in un’espressività emotiva che parte dalla pancia. Lo ritroviamo nelle xilografie, ma anche in Glu Glu Glu (1964), dove per la prima volta dalla carta si sposta allo scultoreo usando materiali plastici imbottiti. Ritroviamo la struttura convoluta dell’intestino anche nelle sue sculture di argilla fatte a mano: metri e metri tubolare che si avvolgono su loro stessi. Nel plasmarli per ore e ore, Maiolino attiva un rituale che scherzosamente associa alle domeniche passate in casa con sua mamma a tirare la pasta per la sua numerosa famiglia (è la più giovane di dieci figli). Un rituale che richiama una radice profonda, un tassello della sua identità che si coniuga perfettamente con la dialettica antropofagica del brasile – il paese che l’ha accolta. Lo spirito cannibale che Asbury spiega come ingestione e rielaborazione si collega al concetto di traduzione da un linguaggio a un altro. Per approfondire questo aspetto dell’opera di Maiolino, tornano utilissime le traduzioni di Hélèn Cixous.

Anna Maria Maiolino, Glu Glu Glu, 1964.

Nell’analizzare le difficoltà affrontate dal traduttore, la teorica spiega che per ovviare ad una perdita di significato insita nella traduzione, ci si può avvalere di una sorta di bilinguismo, permettendosi di lasciare parti non tradotte e di utilizzare strutture grammaticali lasse. L’obiettivo di questa tecnica è di introdurre continuamente un elemento straniero o intraducibile. Così facendo si ammettono le inaccuratezze della traduzione a priori, e si celebra ciò che è estraneo o marginale a un linguaggio puro.

Il concetto di bilinguismo radicale appartiene al critico letterario Abdelkebir Khatibi, a sua volta citato da Cristina Demaria nell’importante volume italiano Femminismo, Critica Postcoloniale e Semiotica. In questo libro, la teorica propone una definizione della soggettività femminile e postcoloniale non come linguaggio, ma come “traduzione, mistraduzione” (riferendosi anche a Cixous). Spiega, “alla fissità della categoria di genere si oppongono dei significati in divenire e in traduzione capaci di ridefinire i confini del discorso, ma anche, di conseguenza, le logiche e le forme semiotiche che informano le azioni e che regolano i processi di identificazione e di appartenenza culturale. “Riflesso di un’identità dislocata e sdoppiata, l’opera di Maiolino “mistraduce” linguaggi stranieri, coesistenti ma irriconciliabili, usando una forma di bilinguismo radicale. Spesso riportandoci alla sua esperienza migratoria, l’artista propone significati in divenire, in grado di ridefinire un’idea di appartenenza.

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Sofia Gotti