“Volume XXVI”, è la seconda mostra personale presso la galleria Massimo Minini di Brescia dell’artista cipriota Haris Epaminonda, leone d’argento alla 58a Biennale di Venezia 2019. Il titolo identifica la mostra quale ennesimo episodio d’una serie di esposizioni che si succedono pur slegate da qualsiasi sequenzialità narrativa. La parola volume, oltre a evocare immaginari letterari, sembra riferirsi alla natura fisica dell’esposizione che si caratterizza in quanto corpo volumetrico diffuso nello spazio, insieme d’opere a parete e pavimento che articolano gli ambienti della galleria e scandiscono il ritmo di una visione continuamente sospesa tra il colpo d’occhio e lo sguardo ravvicinato. Le opere con cui Epaminonda produce questa strutturazione dello spazio espositivo sono bianchi monocromi a pastellone su tavola con inserti in ottone e ferro, immagini trovate e pagine di libri, corpi scultorei costituiti da eleganti object trouvé, display di pregiata fattura e superfici specchianti che aprono, nel bianco immacolato del white cube, squarci di spazialità barocca. L’accostamento di elementi eterogenei – le ceramiche esposte sui plinti in radica di Untitled # 03 t/g (2019) o il cuscino con nappine adagiato sulla struttura in legno di Untitled # 12 t/g (2019) – accomunati da un non so che di evocativo esotismo, dà vita a composizioni senza fuoco, complesse strutture in cui tutto è correlato a tutto ma ogni elemento lo è in maniera specifica e differente.
Ciascuna composizione è a sua volta parte d’un insieme più ampio, la mostra, e ogni opera contiene in sé elementi che rinviano a ciascun’altra, come note distinte che pur dissonanti danno vita ad accordi armoniosi. Una polifonia in cui riecheggia l’atmosfera evocata dalle opere esposte, parallelamente, alla Biennale di Venezia e al Martin Gropius Bau di Berlino. Composizioni scultoree e opere video che condividono una stessa e coerente sensibilità. L’attitudine da collageur con cui Haris Epaminonda accosta oggetti gli uni agli altri, è infatti trasposizione scultorea del taglia e cuci di frammenti found footage che l’artista produce, dando vita a filmati in cui ogni inquadratura è parte integrante eppur distinta di un insieme omogeneo. Una pratica in grado di evocare atmosfere metafisiche e lasciarci con il dubbio che la metafisica non sia per l’artista che un mero immaginario di forme a cui attingere per decostruirne, o perpetrarne, lo stereotipo.