David Maljković Galleria Massimo Minini / Brescia di

di 2 Novembre 2019

“Yet to be titled”, titolo che accomuna tutti i nuovi lavori realizzati nel 2019 da David Maljković (Fiume, 1973) per la sua personale alla Galleria Massimo Minini di Brescia, offre un’appropriata chiave di lettura per avvicinarsi sia alla pratica che alla poetica dell’artista di origini croate. L’esplicita dichiarazione di non compiutezza di un atto, la non definizione di una scelta univoca, l’apertura a possibili plurime titolazioni rappresentano il più adeguato corrispettivo di un lavoro in costante divenire. Quello di Maljković è un articolato ragionamento sull’opera che non si completa, né si esaurisce nel singolo momento espositivo ma che, in continua trasformazione, assume significati e significanti sempre diversi non appena lui stesso decide di agire su di essa, ricontestualizzandola. Attraverso installazioni, video, dipinti, collage, pubblicazioni, da anni l’artista porta avanti una coerente riflessione su storia e memoria – tanto personale, quanto collettiva –, su cascami e conseguenze dell’eredità modernista, sulla dicotomia forma/contenuto e sulla relazione dialogica tra opera, osservatore e ambiente. L’acuta analisi di strategie e meccanismi espositivi lo ha talvolta indotto a ridurre al grado zero la mostra stessa con un tautologico operare per sottrazione – il cui obiettivo è privilegiare la messa in scena dei soli elementi costitutivi del display, ritenuti in sé e per sé rilevanti. Tale processo prevede un’incessante rimessa in discussione dello status quo e spinge Maljković a tornare in più occasioni sulle stesse opere e serie, ampliando e diversificando la gamma dei mezzi con cui trattarle. A Brescia infatti riprende alcuni dei suoi precedenti lavori – oli su tela, collage, stampe – ma anche oggetti d’affezione trovati – quali, ad esempio, due Boby, carrelli contenitore disegnati da Joe Colombo nel 1969, provenienti dall’ufficio di Minini – o, ancora, teche in plexiglass dismesse, per congelarli nello spazio-tempo, in uno specifico hic et nunc, grazie all’impiego di resine epossidiche. Ne deriva un paesaggio di monoliti afunzionali e dipinti quasi scultorei, una sorta di fossili post-postmoderni conservati in un’ambra artificiale – seducente nella sua consistenza vitrea, sia essa lucida, trasparente o colorata – intrisi di piccole e grandi narrazioni che si esplicitano via via strato dopo strato. In queste opere, potenti e precarie al contempo, la materia parla anche tramite le sue imperfezioni, si rivela in dettagli minuti, non a prima vista percepibili. Proprio questi dettagli tradiscono un’irrequietezza progettuale anticipatrice della volontà dell’artista di non considerare le opere ancora del tutto compiute ma passibili di ulteriori interventi, propedeutici a una loro successiva riattivazione. Paradossalmente, la stasi indotta dalla resina apre così ad altri potenziali mutamenti, in un ciclico alternarsi di azione e inazione volto a espandere le condivise dinamiche della percezione del quotidiano.

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Damiano Gullí