La pittura parla per sé: Sarah Buckner di

di 5 Novembre 2019

Per Sarah Buckner dipingere è un’urgenza, una necessità, che la spinge a immergersi in universi fiabeschi e surreali, senza dimenticare la relazione imprescindibile con le presenze e gli elementi che popolano il suo quotidiano. Negli occhi ancora la lezione di Peter Doig, che ha appreso durante i sui corsi alla Kunstakademie di Düsseldorf. Buckner costruisce per ogni suo quadro un’atmosfera unica che attrae lo sguardo in movimento centripeto. Non c’è vera narrazione nei suoi lavori, tutto appare sospeso, congelato, come in attesa che qualcuno riattivi quel “fermo immagine” che, per caso o per errore, si è innescato.

A distanza di quattro anni dalla precedente personale a Roma, Buckner prepara una nuova mostra per la galleria Ermes Ermes, questa volta a Colonia. “Chance are”, titolo dell’esposizione, si propone come un augurio che concede la purezza e l’euforia delle possibilità. Partendo dallo specchio (Pleroma, 2019), catalizzatore di significati, limen, soglia da osservare e oltrepassare, l’artista costruisce mondi in cui gli opposti coesistono e si completano, situazioni in cui le luci e i piani compositivi privi di gerarchia si intersecano appiattendo le immagini. La pittura di Buckner non vuole rassicurare lo spettatore, né stabilire con lui una relazione propriamente empatica. La sua pittura è enigmatica, surreale. Essa pone domande aperte piuttosto che dispensare risposte consolatorie. In questo senso si veste delle infinite possibilità cui allude il titolo, demandando al pubblico lo sforzo di sollecitare l’esplorazione delle proprie personali verità.

Marta Silvi: Hai cominciato a studiare pittura all’Accademia di Palermo nel 2008 e hai poi proseguito gli studi all’Accademia di Düsseldorf con Peter Doig: in che modo queste esperienze hanno influenzato la tua pratica?

Sarah Buckner: Ho trascorso due anni a Palermo per iniziare l’Accademia di Belle Arti, perché ero fondamentalmente in ritardo per fare domanda in altre scuole. L’ho fatto anche per uscire dalla Germania; ho costruito il mio portfolio proprio negli anni a Palermo con il quale ho poi applicato alla Kunstakademie-Düsseldorf. Questo spostamento, tuttavia, non ha rappresentato un grande cambiamento, essendo nata in Germania, ma sicuramente l’esperienza alla Kunstakademie in quel preciso momento è stata fondamentale, eccitante: sentivi davvero di trovarti nella dimensione giusta, in un contesto dove erano molti gli artisti a dedicarsi alla pittura. Per cui è vero che la mia pratica pittorica è iniziata più intensamente e consapevolmente lì.

MS: Dopo i gloriosi anni Ottanta, assistiamo ora a una rinascita dell’interesse nei confronti della pittura, dovuta a una serie di fattori: estetici, etici e spesso commerciali. All’inizio del XX secolo gli artisti iniziarono a indagare il mondo dell’astrazione, un processo che culminò con l’Espressionismo Astratto Americano, per poi tornare all’oggetto, sperimentando un nuovo tipo di figurazione. Come consideri la pittura tra le attuali discipline artistiche?
SB: Considero la pittura come qualcosa di eterno che va molto indietro nel tempo e allo stesso tempo molto avanti, qualcosa che non ha tempo. Nell’eterno non c’è né prima, né dopo.
Gran parte di ciò che viene realizzato oggi mi sembra che riguardi l’istantaneo, qualcosa legato esclusivamente al presente o all’intrattenimento, e ciò mi rende sospettosa circa le intenzioni che si nascondono dietro la produzione di molta arte attuale; tuttavia penso che spetti comunque al tempo filtrare quel che rimarrà. È una domanda difficile a cui rispondere, ma credo che la pittura continuerà a esistere, a prescindere dalle possibilità di investimento o meno in essa. Creare immagini è un’urgenza umana, naturale. Non ho iniziato a dipingere perché mi portasse qualche riconoscimento. È l’unica cosa che penso di poter fare e lo faccio per necessità, sapendo di non essere sola. Il pensiero che la pittura costituisca o meno un trend ha più a che fare con un fenomeno di mercato che con la realtà di quanto accaduto nel secolo scorso.

MS: Ti sei sempre considerata una pittrice pura? Hai mai desiderato esprimerti attraverso un mezzo differente?
SB: Sì, almeno fino ad ora. Ma non si può mai dire…in modo definitivo.

MS: I tuoi protagonisti e i tuoi personaggi sembrano prelevati dal mondo della letteratura, della fantasia e delle favole. Come scegli i soggetti delle tue tele?
SB: Ovviamente, per lavorare, devo riempire la mia mente di libri, filosofia, film, qualsiasi cosa sia in grado di produrre immagini e idee. Sono arrivata ad alcune figure attraverso fonti letterarie, è vero, come nel caso di Join the Club (2019) ispirato alla lettura di Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò di Lewis Carroll.
Tuttavia Let the Right One in(2019) rappresenta il parco dietro il mio studio, che è diventato lo sfondo o l’atmosfera da cui sono emersi gli altri dipinti. Ciò deriva piuttosto dalla necessità di relazionarmi con le cose da cui sono circondata. Sebbene io sia alla ricerca e assorba elementi fantastici, essi sono tuttavia direttamente legati alla realtà.

MS: “chances are”, il titolo della tua attuale mostra presso Ermes Ermes, Colonia, funziona come uno statement.
SB: Il titolo mi è venuto in mente da una canzone dei Love Joys, che stavo ascoltando in studio. Ho pensato a chances are come a un’espressione particolarmente aperta e positiva, alle possibilità. Il periodo in cui ho lavorato a questa mostra è stato un momento piuttosto duro e questa canzone mi ha accompagnato dandomi lo sprone a continuare.

MS: Tra la tua ultima mostra da Ermes Ermes nel 2015 e quella appena inaugurata a Colonia, i tuoi quadri sembrano aver perso profondità e materialità, e muoversi verso una dimensione metafisica. I soggetti sembrano più isolati e la tavolozza è diventata più scura. Come senti e spieghi questo passaggio?
SB: Nel 2015 ero ancora all’Accademia, la mia vita era meno strutturata, facevo molta ricerca sui materiali e naturalmente il processo di creazione dei quadri ne era il riflesso. Anche a quei tempi i miei lavori erano piuttosto scuri. Ora seguo un processo diverso, lavoro con più intenzione, comprendo e studio maggiormente i soggetti prima di affrontare la tela.
Nella mostra attuale ogni quadro ha una consapevolezza diversa a seconda di come è eseguito, del soggetto o del mood. I materiali sono cambiati nel modo in cui preparo la tela, così come il tipo di vernice che uso per iniziare alcuni lavori. Ad esempio in Tweedle (2019) ho cominciato prima con la tempera per poi continuare con gli olii, mentre Boychild (2019) è nato semplicemente con la pittura e una buona dose di caso. Forse proprio questo mi ha portato a produrre tele e superfici diverse tra le opere in mostra. Ogni quadro ha una fonte propria e allo stesso tempo prende le mosse dal dipinto eseguito in precedenza.

MS: Nei tuoi quadri è forte il senso del silenzio. Nell’atmosfera che crei l’aria appare immobile, densa. Anche quando rappresenti un’azione, come in Let the right one in e Join the club (entrambi 2019), essa sembra per lo più congelata e silenziosa, sospesa.
SB: Questa è una cosa positiva, il silenzio è spesso utile per ristabilire una dimensione di ascolto di se stessi.

MS: Nella tua ultima produzione lo specchio dipinto diventa una presenza molto importante, un elemento arcano in grado di portare i tuoi personaggi insieme allo spettatore all’interno di una nuova e diversa dimensione. Come lo spiegheresti?
SB: Non credo di poterlo spiegare. Cercavo di dipingere qualcosa di “non spiegabile” presumo. Il dipinto parla più di quanto possa farlo io stessa.

MS: Paulina Seyfried nel testo che accompagna la mostra a Colonia parla di “ingenuità infantile, vera crudeltà e oscurità minacciosa”: questi elementi sono nel tuo lavoro due facce della stessa medaglia?
SB: Forse. I bambini possono essere crudeli e non lo fanno necessariamente con intenzione. Nella loro innocenza possono essere spietati, ma non lo fanno per nuocere deliberatamente bensì perché sono fondamentalmente onesti. Ogni cosa contiene i suoi opposti, no?

MS: Nel 1968 Arturo Schwarz in uno dei suoi contributi critici riporta le seguenti parole di Marcel Duchamp, che spiegano perfettamente un concetto molto vicino alla tua visione della pittura, così come la descrive Alastair MacKinven nel testo dedicato al tuo lavoro: “Il contenuto o il valore di un quadro non si possono valutare a parole. Non puoi trovare un linguaggio per parlare di pittura. La pittura è linguaggio in sé. Non puoi interpretare una forma d’espressione con un’altra forma d’espressione. A dir poco finisci col distorcere il messaggio originale qualunque cosa tu dica”. Condividi questo pensiero?
SB: Assolutamente si!

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