Il “Buon Selvaggio”, descritto da Jean-Jacques Rousseau, oggi, avrebbe avuto sicuramente uno stylist. O forse più di uno. Cosa ne resta dell’essere degli esseri umani quando la natura è soprannominata “location”, la casa – lontana dall’essere la Hut heideggeriana – si riduce a un set e le relazioni umane non sono nient’altro che algoritmi e follower? I protagonisti dei video diretti da Lizzie Fitch e Ryan Trecartin (commissionati da Fondazione Prada) cercano di rispondere a questi interrogativi attraverso quella che sembra l’unica possibilità concessa dalla nostra società: l’iper-rappresentazione deformata del sé. Per la realizzazione di “Whether Line” i due artisti si sono trasferiti per due anni nella campagna dell’Ohio, auto-costringendosi a un’immersione nella natura. La stessa natura, topologicamente coercitiva, ravvisabile nell’installazione ambientale e sonora che occupa il Podium, il Deposito e gli spazi esterni della Fondazione, che ci costringe a una deambulazione guidata – quasi come fossimo topi da laboratorio – verso le capanne fake-bucoliche che ospitano la proiezione del complesso lavoro filmico. Le immagini in movimento di Fitch e Trecartin sono caratterizzate da cromatismi psichedelici e acidi, font volutamente trash, dialoghi come cumuli di meme, inquadrature disturbanti e girati ricolmi di fuori-fuoco. Il risultato è una serie di film senza trama, perché averla implicherebbe la volontà di raccontare una storia e scriverne un finale, e invece questi film sono situazioni che non si concludono mai: gli attori scattano foto per copertine di dischi che nessuno ascolterà o improvvisano videoclip con cast corali per band inesistenti.
Il punto, infatti, è far credere nella possibile messa in atto del progetto, non tanto nella sua effettiva realizzazione. Non resta più tempo per pensare al futuro né, tantomeno, ad apocalissi diegetiche di sorta: le stories di Instagram sembrano avere radicalmente modificato la nostra esperienza e Fitch e Trecartin ci mostrano le conseguenze.
Siamo diventati i narratori schizofrenici delle nostre vite, immersi nell’ansia permanente del non conoscerle abbastanza, del non mostrarle abbastanza, che forse ormai è la stessa cosa. Siamo costretti a una performance continua della nostra identità, come i “natural born comedians” di questi video – vestiti come attori consapevoli di un film in costume low-budget diretto da David Cronenberg – che impiantano un cavalletto tra le foglie secche e iniziano a riprendersi. Per l’animale urbanizzato e digitalizzato, infatti, la natura non è più locus aoenus ma luogo-set dell’esposizione del sé, testimone di una mutazione di natura ontologica: ciò che mostriamo, ciò che postiamo ci definisce in quanto individui. Il nascondimento non ha alcun valore, anzi, è ora qualcosa da mettere in mostra. Paradigmaticamente, nell’ultima stanza, siamo avvolti dallo stesso video proiettato a quattro canali che mostra una natura incantata attraverso inquadrature schizoidi. Se Heidegger si era costruito una capanna nella foresta per cercare la verità – per lui eminentemente legata alla dimensione umanissima del nascondimento dal mondo – qui, in perfetta antitesi, è proprio la foresta a entrare nella capanna attraverso l’artificialità degli schermi, che invece di mostrarci la realtà, questa volta sì, la nascondono.