Il pensiero non è una modalità di accesso privilegiato alle cose del mondo. Questo è quello che sostiene l’Object Oriented Ontology (OOO) e Timothy Morton nel suo ultimo libro Noi, esseri ecologici (Edizioni Laterza, Bari 2018). L’OOO mina all’interezza con cui l’essere umano si illude di accedere alle cose. Queste “intuizioni ci regalano un mondo in cui l’antropocentrismo diventa impossibile perché il pensiero è stato correlato strettamente all’essere umano per molto tempo e gli umani sono stati per lo più gli unici esseri a cui era consentito l’accesso ad altre cose in maniera significativa”, scrive Morton.
Il pensiero filosofico contemporaneo ci sensibilizza sempre più nell’accettazione di un’esistenza che comprenda altre forme di vita e che livelli quella umana alle restanti specie. E da un lato ci sono i media che portano avanti la loro campagna di sensibilizzazione; sono sempre più frequenti le immagini di creature marine morte con tonnellate di plastica nello stomaco. Sembrano immagini “inedite”, che suscitano una certa dose di ribrezzo (verso la società? Verso noi stessi? Gli interrogativi sono molteplici e complessi), anche se in realtà l’Antropocene risale storicamente al 1945. L’attenzione agli oceani e agli animali che li abitano caratterizza Ocean Space, centro globale di ricerca per la difesa oceanica sviluppato da TBA21 Academy e ospitato nella Chiesa di San Lorenzo a Venezia (che dopo circa 150 anni di chiusura e dopo due anni di restauro riapre al pubblico).
In occasione della sua apertura ufficiale Ocean Space presenta “Moving Off the Land II” progetto pubblico di Joan Jonas (su commissione di TBA21 Academy). Un’intensa ricerca durata tre anni, sugli acquari e nelle acque giamaicane, in cui Jonas sperimenta in maniera totale, e con l’approccio che ha sempre caratterizzato le sue produzioni, la vita degli organismi biofluorescenti e l’impatto degli oceani sull’ambiente. A questa visione del mondo al di sotto di noi, l’artista ci fa accedere quasi in punta di piedi. La sala principale è pressoché vuota ma il sonoro, costituito dalle registrazioni idrofone (risultato della collaborazione fra Jonas e il biologo marino David Gruber) dei vocalizzi metallici emessi da capodogli, ci dà una sensazione di immersione che si dilata una volta entrati nella seconda sala, in cui sono costretti tutti i lavori in mostra. L’immensità e la profondità degli oceani è ridotta ai minimi termini dall’allestimento (un po’ bulimico) ma allo stesso tempo la sensazione è quella di entrare in un mondo privilegiato.
È impossibile non pensare a “They Come to Us Without a Word” – Padiglione USA alla 56a Biennale di Venezia – in cui l’artista affrontava il mondo non umano e il pericolo del riscaldamento globale. La sala qui è costellata dei Murano glass mirrors (2019) che fanno eco ai celebri Mirror Piece degli anni Sessanta e che trattengono in qualche modo la percezione dello spettatore, generando una sovrapposizione di piani e visioni e una relazione a intermittenza con il dispositivo-mostra. L’utilizzo dello specchio (una costante in Jonas) è indicativo del ruolo fondamentale dell’essere nel luogo e della capacità di guardare guardandosi. Di qui deriva il rapporto imprescindibile col corpo e lo spazio: My New Theater (1997 – in corso) veri e propri dispositivi (esperenziali – percettivi – curatoriali) sono in mostra con cinque nuove iterazioni.
Questi parallelepipedi in legno che accolgono opere-video e osservatore (nel caso dei tre con dimensioni abitabili) sono anch’esse una costante in continua sperimentazione, perché lo spazio del video per Jonas non è statico, ma ha bisogno di essere perforato, attraversato e viceversa. Gli schermi mostrano Moving Off the Land (2016 – in corso), la serie di performance che sovrappongono immagini girate negli acquari in Giamaica, a rituali in forma verbale e danzata con la voce di Jonas che attinge alla mitologia e al folklore per restituire uno spaccato disastroso degli effetti delle scelte della vita umana su quella animale e vegetale nei mari. Jonas prova a emulare i movimenti di un polpo o di una sirena, o ancora viene ripresa mentre si immerge e nuota, a fatica, nelle acque turchesi. Sembra quasi arrivare a quella dimensione che Morton definisce “Pianura spettrale”, una regione piatta che si estende orizzontalmente, dove la tolleranza di un’altra forma di vita lascia il posto all’apprezzamento di quest’ultima, senza particolari motivi. Perché “amare qualcosa e basta non ha mai delle grandi ragioni allegate”.