La prima mostra personale del pittore belga Luc Tuymans si inserisce nell’ambito “Carte Blanche”, programma di monografie portato avanti da Palazzo Grassi a partire dal 2012. L’evocativo titolo – “La pelle” – è tratto dal titolo dell’omonimo romanzo di Curzio Malaparte pubblicato nel 1949, dove lo scrittore toscano mette a nudo un’umanità lacerata e disfatta dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale. La mostra, a cura di Caroline Bourgeois, occupa ventisette sale di Palazzo Grassi, comprendendo circa ottanta dipinti che ripercorrono l’intera carriera di Tuymans. Il pittore è stato strettamente coinvolto nella costruzione del percorso espositivo, che non segue un andamento cronologico, ma si snoda nella sale del palazzo con focus che affrontano i temi e i soggetti principali della sua produzione pittorica.
Tuymans lavora infatti esclusivamente con il medium pittorico a partire da metà anni Ottanta, e presenta un corpus tematico e di soggetti estremamente eterogeneo, che spazia dalla rappresentazione di topoi appartenenti alla storia passata e recente – riferimenti alla storia del Novecento, dal nazismo al disastro di Chernobyl, alla televisione trash dei giorni nostri – assieme a soggetti personali o quotidiani. Una riflessione sulla pittura e sulla sua rappresentazione che si muove quindi da tematiche e intuizioni private a questioni pubbliche, portata avanti con il medesimo approccio stilistico. La pittura di Tuymans infatti appare sempre rarefatta, la sua resa si avvicina a monocromi, con tonalità sorde e spesso appiattite, diafane e allo stesso tempo in qualche modo perturbanti. Un uso particolarissimo del colore teso a creare un rapporto tra immagine e quadro che rifiuta la narrazione degli eventi, per favorire la contemplazione e la personale rielaborazione da parte dello spettatore. I quadri di Tuymans si originano da un repertorio di fonti iconografiche che mescolano fotografie dello stesso artista – da polaroid a foto scattate con lo smartphone – immagini di archivio o di attualità reperite su riviste o su internet, filmati video e oggetti tra i più disparati.
Le immagini dai cui l’operazione concettuale di Tuymans si origina sono impiegate come una sorta di materia grezza, egli se ne appropria e le modifica: un percorso di restituzione che tramite il medium pittorico rende possibile ciò che lui stesso definisce una “falsificazione autentica”. Le sue tele non sono altro quindi che l’elaborazione di un immaginario già presente nella memoria collettiva, un esercizio di traduzione che porta dall’universale e condiviso al personale. Guardando le opere del pittore belga lo spettatore si trova a interrogarsi sullo sfasamento tra quella che era l’immagine reale di partenza e la sua restituzione pittorica; ne emerge lo sviluppo della potenzialità immaginifica di ogni soggetto rappresentato, come osserva Tuymans: “abbiamo l’abitudine di digerire l’immagine. Di contro la pittura e qualcosa che va realmente osservato, che si deve contemplare, che si deve decifrare e decodificare”.
Ad accogliere lo spettatore nell’atrio di Palazzo Grassi l’unico lavoro non pittorico presente in mostra: Schwarzheide (2019, dall’omonimo olio su tela del 1986), monumentale mosaico in marmo di circa 10×10 m, che ripropone un disegno di Alfred Kantor, un sopravvissuto dal campo di lavoro in Germania dove i detenuti erano soliti realizzare in segreto disegni che tagliavano poi a strisce per nasconderli e farli sfuggire alla confisca. Già interessato al processo di ricostruzione dell’immagine operato da Kantor, qui Tuymans concepisce una sorta di pavimentazione urbana che si ricostituisce e svela il suo messaggio solo ad una certa distanza, resa possibile dalla visione dall’alto che si ha dalle balaustre del palazzo. Un’ennesima richiesta allo spettatore di darsi un ruolo attivo e interpretativo, una decodificazione del reale che si innesta tramite immagine.
La mostra a Palazzo Grassi, nella sua poderosa rappresentazione, diviene così un esemplare percorso nella pratica di Tuymans, un viaggio nella quasi interezza della sua produzione che permette di far emerge l’assoluta coerenza linguistica e operativa che contraddistingue la ricerca dell’artista belga, tra contemplazione e comprensione.