In occasione della mostra dedicata a Mirella Bentivoglio al MLAC – Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea di Roma le due curatrici, offrendoci un percorso espositivo attraverso l’opera grafica e la sua genesi, riscrivono un lemmario1 di termini (coppie di opposti) che ricostruiscono la grammatica visiva – sempre tendente alla sintesi di pensieri complessi – di una delle maggiori artiste, teoriche e promotrici dell’arte delle donne.
Intuizione/progetto: Le opere in mostra forniscono alcuni esempi del processo creativo dell’artista. Dalla prima intuizione all’elaborazione del progetto, la cui realizzazione è frutto di una serie di incognite dovute all’attitudine di Bentivoglio a manipolare i materiali scelti e a concettualizzarli. È certamente difficile, per chi osserva le sue opere, tenere separata la sua attività teorica dalla sua pratica artistica. Assistiamo a un continuo dialogo tra il suo lavoro creativo e la sua ricerca che spaziava dalle opere futuriste all’universo femminile indagato al di là degli ideologismi a cui apertamente non voleva appartenere.
Affermazione/negazione: Tra tutte le categorie di opposti di cui è disseminato il lavoro di Mirella Bentivoglio, questa si può dire che le sintetizzi tutte. Come artista e come teorica è stata una figura fortemente assertiva. Fin dall’adolescenza ha sempre mostrato una personalità decisa, è sufficiente guardare la foto di lei giovanissima, al liceo svizzero dove studiava, travestita da Hitler o la sua battaglia culturale iniziata nel 1971 al Centro Tool di Milano per l’affermazione del lavoro artistico femminile. Ma, anche in questo caso, vi è un opposto che sostanzia e dà forma: la sua negazione. La consapevolezza della discriminazione dell’universo femminile ha dato forza alla sua convinzione che la distinzione dei generi fosse un topos della cultura maschile che doveva essere combattuto. Come una novella Virginia Woolf ha assecondato la parte androgina della propria creatività coinvolgendo molte altre artiste nel suo percorso.
Femminile/androgino: Virginia Woolf, in accordo con Coleridge che credeva nella superiorità di una mente androgina, affermava che «nell’uomo la parte femminile del cervello deve comunque avere un suo effetto; e anche la donna deve cercare di andare d’accordo con l’uomo che c’è in lei». Bentivoglio si è sempre schierata a favore dell’espressione della creatività femminile particolarmente incline all’uso della parola, e come antropologicamente versata all’opera della tramatura e della tessitura, così come a quella del diario. Giuseppe Garrera, uno dei collezionisti a cui si devono le opere in mostra, ha così riassunto il concetto «Logos (linguaggio e legge) di fronte a Mater (madre e materia): il significato è la legge, il significante è la concretezza linguistica del nome della cosa, le qualità fisiche della parola (il suono della parola è carne della carne della parola) e la componente visiva apparizione e presenza, fragranza del corpo: la donna si interessa del corpo della lettera, della carne della parola».
Spazialità/tridimensionalità: Già dalle prime sperimentazioni la Poesia Concreta – coniugandosi anche nel movimento Spazialista – aveva reso ‘materiale’ e geometrizzata la disposizione della parola sulla pagina. Bentivoglio va oltre questa delimitazione e fa uscire la parola dalla carta stampata rendendola oggetto tridimensionale fino a farla diventare scultura (sono famose le sue sperimentazioni sulla lettera E). Non a caso la prima mostra istituzionale in Italia dedicata all’arte al femminile “Materializzazione del linguaggio” all’interno della Biennale di Venezia 1978 è stata curata da lei che sottolineava «il rapporto profondo della donna con l’alfabeto» anche attraverso la ricerca del «corpo del linguaggio» che consente alle artiste di ritrovare il proprio attraverso il gesto.
Nel catalogo per la mostra “Silenziario” del 1973 ancora l’artista scriveva: «Roma città di lapidi, città scritta, che avrebbe influito sulla trasformazione oggettuale della mia scrittura poetica». Le lapidi in particolare hanno costituito un fascino in lei la quale, oltre a crearne alcune in marmo le adotta anche per opere su carta come quella esposta in mostra Autolapide su carta da rendiconti (1970).
Parola/silenzio: Esplorare il logos, manipolarlo, scomporlo e piegarlo a significati altri è un lavoro sottile sul linguaggio che sottende l’intenzione di svelarne i meccanismi più profondi e giocare con essi. Entrare negli interstizi della scrittura, o meglio delle scritture, vuole dire avventurarsi in un percorso lungo che si affaccia, per intuizioni o lampi, sul suo oltre: il silenzio. La disarticolazione del codice linguistico e la visualizzazione grafica di questa operazione verifica le potenzialità insite nello stesso linguaggio, quelle di percorrere sentieri alternativi camminando sul crinale tra senso e non senso, tra la parola e la sua disintegrazione semantica. A questo proposito ricordiamo che Bentivoglio ha subito la fascinazione del primo esempio di scrittura asemantica (asemic) di Arturo Martini in un libro del 1918 poi più volte ristampato. L’ultima edizione (Edizioni Colonna, 2013) contiene una sua prefazione, scritta insieme a Nico Stringa, nella quale viene messo in evidenza quanto alla base di questa opera ci sia un «dubbio profondo e una radicale rinuncia nei confronti della parola e dell’immagine, lanciando un messaggio d’allarme sulla possibilità stessa dell’espressione e della comunicazione»; dubbio che rimanda alla dimensione del «silenzio totale».
Memoria/segni: Il suo viaggio nell’universo dei codici linguistici ci riporta ai segni primordiali, arcaici che vengono inclusi nel novero dei codici linguistici correnti. Vicina alle ricerche sulle origini culturali di un mondo occidentale in profonda crisi identitaria sin dai tempi delle avanguardie storiche, Bentivoglio guarda ai segni primitivi, quelli da lei stessa definiti “archeoscritture”, o alle lingue dimenticate così come andavano elaborando grandi figure come Emilio Villa e nell’ambito della ricerca verbovisiva Giovanna Sandri. Un esempio in mostra è Protoscrittura (1977). Attraverso lo studio di segni archetipici approda così alla sfera del simbolico; Renato Barilli ha individuato nel suo lavoro (in Dalla parola al simbolo, 1996), l’uso del simbolo come «portentoso convertitore tra la sfera dei significanti e quella dei significati», dove con modi «non pedanteschi» si è liberi di costituire simboli. Il processo di metamorfosi che l’artista opera sui segni linguistici o immagini fotografiche è dunque simbolico, così come dietro al gioco verbovisivo vi è sempre un elemento etico. Come chiaramente avviene in Gabbia (HO) (1966) costruita con la prima persona singolare del verbo avere o Fiore nero (1971), rielaborazione dell’immagine prelevata da un quotidiano di un oscuro e tragico episodio di razzismo su un uomo nero. «Per i funerali del negro diciannovenne Donald Rick Dowell, ucciso da un poliziotto, neri i vestiti, neri i cavalli, nera la bara, neri perfino i fiori», come sottotitolò lei stessa.
Mistero/chiarezza: Slittamenti di senso, sottili fili che si intersecano nel lavoro continuo sugli enti minimi della scrittura, dalla parola alla punteggiatura, aprono finestre sul mistero del significato che non potrà mai essere completamente disvelato. Bentivoglio non è un’artista esoterica, non dialoga con l’ineffabile (né con il segreto) ma lo include nel suo lavoro, lo fa proprio. Cerca sempre una verifica logica e razionale della precarietà del linguaggio. I giochi di parole, le frammentazioni e ricomposizioni aprono finestre su luoghi alternativi al senso comune. Se un mistero c’è, è da ricercarsi nella dimensione laica che si fonda sui margini offerti dall’ambiguità del linguaggio. Fu Dorfles, già nel 1973, a intuire l’importanza del gioco con «ambiguità semantica» nel lavoro dell’artista. Scrive Dorfles nel catalogo della mostra “Pictogramma Mirella Bentivoglio, poesia visiva”: «un tendere dell’attività creativa odierna verso un elemento di ambiguità semantica, che s’incarna a seconda dei casi in una altrettanto viva ambiguità visiva e verbale. Chi poi da questa ambiguità saprà ricavare anche un frutto, potrà gustarlo e saziarsene senza rischiare mai di farne indigestione». Nessuna indigestione infatti, ma nutrimento per generazioni di artisti e studiosi che continuano a trovare nelle ricerche di Bentivoglio importanti spunti di riflessione sia nella prospettiva storica degli anni germinali delle ricerche verbovisive sia nelle varie coniugazioni nel contemporaneo.
Pieno/vuoto: Nell’opera verbovisiva di Bentivoglio c’è un pieno di significato e c’è un vuoto che lo erode. Si crea un dialogo continuo che può trasformarsi in lotta per la sopravvivenza, un contrasto che a ben vedere è vitale poiché mette in movimento ciò che per convenzione diamo per scontato. In opere come Icona nera (dio-io) (1968) o Horror pleni, amor vacui (1970) o ancora Successo (1969) viene dato corpo all’antica precarietà di relazione tra significante e significato. L’artista ha scritto in una nota di accompagnamento al suo Punto ambiguo (“geiger sperimentale” n. 25, Torino 1973): «Il suo significato è che non siamo su nessun punto, né nel tempo né nello spazio. Il presente si sposta sempre e la terra è una sfera sospesa nel vuoto. La nostra persuasione di essere su un punto è un inganno del linguaggio. Infatti il punto della “i” è la “o” della parola punto. Il punto manca».
Nero/bianco: Le opere qui esposte sono tutte rigorosamente in bianco e nero. È una mostra in b/n, il cui colore è dato metaforicamente nell’accensione dell’intelligente dispositivo ludico della poetessa che gioca visivamente con il linguaggio. La severità del b/n riporta certamente alla pagina stampata anche perché sono preferiti i caratteri tipografici alla manualità più personale, ma anche alla pratica della Poesia Concreta e agli esercizi paroliberi futuristi che lei ha studiato attentamente. Nel gioco visivo il netto contrasto cromatico ci guida con precisione nel meccanismo messo in moto dall’artista, che senza distrazioni ci conduce nel suo percorso mentale. Le immagini si fissano ma si mettono in movimento come nel dinamismo percepito delle opere optical.
Assenza/presenza: Opere come L’assente, in mostra nelle quattro diverse versioni (serigrafia e tempera su carta, tempera su tela, plexiglas) e la scultura polimaterica Assenza/ Presenza sono una dichiarazione di poetica che vale per tutte le opere selezionate. Nelle mani di Mirella Bentivoglio dare forma a ciò che manca attraverso una semplice operazione di cancellazione è come indicare qualcosa che è sotto i nostri occhi da sempre. In L’assente la L e l’apostrofo ci mettono nella posizione di attesa di un sostantivo o un aggettivo che sono invece elisi da una superficie che rimane neutra, orfana di un segno che vada a dare un senso all’articolo esposto. L’assenza diventa così una presenza che ci fa sostare sull’orlo di un abisso.
Singolo/doppio: Una volta entrati nel patto finzionale con i giochi verbovisivi di Bentivoglio, ci lasciamo guidare nei rovesciamenti di senso che i segni linguistici possono nascondere. Con semplici spostamenti o manipolazioni scopriamo doppi (a volte di più) significati che aprono su prospettive diverse, spiazzanti. Ma scopriamo che le singole componenti delle coppie di opposti si rispecchiano l’una nell’altra, equivalendosi. “OLTRE LA PAROLA” è, a ben guardare, un’esposizione sul doppio, sulla gemellarità suggellata dai fratelli Garrera, collezionisti e prestatori che ne hanno reso possibile la realizzazione.