Regina José Galindo con “Lavarse las manos”, il primo di due atti del progetto Cuestiones de Estado performato all’Accademia Reale di Spagna a Roma, marca gli effetti del post-colonialismo e delle problematiche geopolitiche e migratorie. Le condizioni necessarie concepite per la partecipazione contribuiscono all’allontanamento da una posizione di riluttanza circa l’assunzione delle responsabilità riguardo le questioni toccate, ponendo il pubblico all’interno di un rituale di “responsabilizzazione”.
Nell’opera Shakespeariana Macbeth, la regina, tormentata dai sensi di colpa, tenta compulsivamente di cancellare una macchia di sangue immaginaria che vede sulle proprie mani – simbolo dei crimini orchestrati e indotti a suo marito – che indipendentemente dai tentativi, non scompare. La ricerca ossessiva della pulizia indotta dal senso di vergogna, diviene parte di un immaginario comune tanto da essere definito “Macbeth effect”. L’obbligo di lavarsi le mani per potere accedere alla performance, e nei giorni seguenti alla rappresentazione della stessa che compone di fatto la mostra, richiama quell’allegoria. Il conscio tentativo di vana purificazione a cui si è sottoposti, sgretola l’integrità morale che caratterizza l’attitudine della logica occidentale alla costruzione dell’Io, evidenziando i processi di individuazione e differenziazione dell’Altro.
All’interno delle quattro sale l’artista guatemalteca, mediante una staticità performativa, è specchio empatico e catalizzatrice del dolore e della ferocia sedimentati nel vissuto di quattro donne migranti. La concretizzazione delle narrazioni, percepibile in successione all’interno di ogni sala attraverso la registrazione delle voci delle protagoniste nelle rispettive lingue d’origine, segue parallelamente la performance di Galindo. L’artista, immobile al centro dei quattro spazi e seguita dal pubblico, indossa i vestiti tradizionali che le sono stati donati dalle quattro donne durante un laboratorio collettivo, restituendo così il loro vissuto e rifiutando ogni tipo di riappropriazione culturale.
Il tempo d’attesa per la reiterazione della performance che corrisponde al tempo di ogni esperienza narrata, lo spazio ridotto per l’osservazione e l’unico rumore percepibile, eccetto le voci – che è quello delle pagine da cui si leggono le traduzioni dei testi – contribuiscono ad attivare quel processo collettivo di responsabilizzazione in cui “Ogni punto d’ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti.” 1