Il workshop “Femminismo, politica e impresa sociale” (15-16 maggio 2020, Università di Bolzano) ha riunito sotto il formato di conversazione scientifica, artisti e accademici che, ciascuno sui margini delle proprie competenze, si sono confrontati su temi quali mascolinità, disuguaglianza di genere, modellizzazione dei ruoli, ‘male-entitlement’ e segregazione. Attraversamenti di campo e contaminazioni hanno costituito la premessa di un’evoluzione dei linguaggi dell’arte contemporanea e delle scienze sociali in direzioni nuove e idealmente condivise. L’obiettivo è soprattutto teorizzare una nuova pratica di collaborazione intellettuale applicando concetti come curatela e ‘live methods’ in ambiti e pertinenze diverse. L’idea del workshop era quella di uscire dallo schema consolidato del convegno ‘teorico’ sul femminismo, privilegiando metodo e obiettivi di policy. Le artiste Claudia Losi, Silvia Giambrone e Marinella Senatore hanno dialogato con diversi profili di scienziata e scienziato sociale, condividendo il senso della propria pratica e l’apertura a forme nuove di ricerca.
Questi dialoghi nascono da un insieme di domande comuni; artiste e scienziate e scienziati sociali hanno cercato di costruire, parlando e guardando le immagini, un nuovo terreno di discorso ai margini dei loro ambiti familiari, in cui i contenuti potessero emergere nella conversazione senza mediazioni (critica, curatela) che tendono a modulare secondo un canone che invece qui si prova a decostruire.
Claudia Losi in dialogo con Valeria Cavotta
Il primo dialogo si sviluppa da un video di Claudia Losi Una volta, all’improvviso… (2012-2017), un progetto iniziato nel 2012 e pensato originariamente in collaborazione con il Dipartimento Educazione del MAXXI, indirizzato ai bambini delle scuole primarie nel quartiere del museo. Nel 2017 è stato riattivato, su invito dell’Ufficio Public Engagement del museo, e indirizzato a un pubblico diverso, quello carcerario, con la collaborazione della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia e di VIC – Volontari in Carcere Onlus. La scienziata sociale, Valeria Cavotta, si serve delle immagini del video di Losi per discutere di vita e creatività sociale all’interno delle carceri: le detenute coinvolte su base volontaria hanno realizzato oggetti nella sartoria interna da donare, tramite il Museo, ai figli orfani spesso in affidamento. Il video racconta le storie legate ai singoli oggetti cuciti, le relazioni che si sono innescate durante l’attività comune, durata circa un anno, in circa sette incontri con una decina di donne. Il video inizia con uno schermo nero e solo dei rumori indistinti, una porta che si apre e si richiude, macchine che iniziano a cucire. Poi i segni si manifestano, le linee dell’animazione diventano nitide, dal rumore di fondo si generano suoni e dai suoni voci umane. Le animazioni sono realizzate da Francesca Dainotto, la regia è di Daniele Signaroldi, e la voce narrante di Daniela Siboni. Il progetto è stato possibile grazie alla collaborazione di Stefania Vannini, Sara Gardella, Anna Marletta, Daniela Loborgo.
La conversazione si interrompe e poi riprende di nuovo in un lavoro di contrappunto in cui l’artista introduce il pubblico al proprio lavoro. Cavotta si interroga sul senso del discorso di Losi e sulla possibilità di rappresentare per immagini e parole il dolore, l’invisibilità sociale, i legami spezzati dall’istituzione carceraria. Senza attendere spiegazioni l’una dall’altra, entrambe lasciano che le parole risuonino su uno schermo su cui scorrono immagini che diventano metafore di una condizione emotiva. Emozione ed emotività sono parole ricorrenti nel discorso di Losi, e servono a marcare la distanza tra il proprio metodo – che è fenomenologico, etnografico e immersivo e non ha ‘obiettivi’ ma li genera nel corso di un lavoro che è innanzitutto esperienza di relazioni – e il metodo di lavoro di Cavotta, che è ordinato rispetto a un orizzonte di attese e il cui obiettivo è contribuire all’avanzamento di un discorso praticato all’interno di una comunità scientifica. Ma la dimensione esperienziale indagata da Losi costituisce un parametro apprezzabile anche per Cavotta, nella misura in cui la prospettiva dell’artista permette di drammatizzare dimensioni del lavoro sociale che restano altrimenti opache e invisibili.
Silvia Giambrone in dialogo con Giulia Sissa
“Ringrazio il cielo, il cielo moderno, di essere stata gettata in questo mondo qui, un mondo dove non sono stata costretta a pensare alla mia esistenza nell’orizzonte unico di una domesticità obbligatoria”. Da questa laica espressione di gratitudine, Giulia Sissa – studiosa di fama mondiale dell’antichità e dell’età moderna – inizia un lavoro di decostruzione di un’ideologia femminista che ha perduto il limite tra la rappresentazione del corpo femminile e la sua oggettivazione, la sua mimesi pornografica. Da questa paura ideologica nei confronti di una mimesi oggettivante secondo Sissa, “ci distoglie l’arte, la téchne, di Silvia Giambrone”, capace di annunciare un femminismo non ideologico e meno austero di quello canonico – secondo cui la violenza sulla donna lasciava come unico indizio l’oggettificazione del corpo femminile. La pratica di Giambrone consente allora di ritrovare indizi rimossi da quella prima fondamentale ossessione ed entra con forza dentro quel “nodo dinamico” costituito da diritti, abitudini e corpi che definiscono un canone del domestico in cui la violenza è sempre mediata, non è mai perpetrata in maniera plateale e diretta.
Il lavoro di Giambrone è un lungo scavo negli strati profondi dell’immaginario sociale; il suo obiettivo è portare alla luce e archiviare pratiche, oggetti e segni identitari, la cui presenza scontata e i cui usi domestici hanno reso immuni da un’indagine che aveva seguito l’unico indizio dell’oggettificazione del corpo della donna. Tra le opere che fanno da innesco al dialogo la serie Icona, rappresentazione di un talamo attraversato da spine che rivela una storia taciuta perché indicibile, una storia di assoggettamento e adattamento a ruoli identitari, funzionali a un ordine. Il talamo diventa per l’artista il tema semantico di una riflessione profonda su tutte le accezioni della parola (pensiamo che talamo, in botanica, è il ricettacolo dei fiori, in cima al peduncolo, dove avviene la fecondazione). Quello di Giambrone è dunque un anti-lessico famigliare in cui ogni normalità è abnorme, ogni codice è denaturalizzato.
La forza decostruttiva di questo lavoro si esercita su un ambiente, la “domesticità obbligatoria” della casa, su cui il femminismo ha svolto, secondo Sissa, un’indagine preconcetta e profondamente ideologica. Ma si tratta di un hortus o interno la cui rappresentazione ha una storia lunga e complessa nell’arte e nella letteratura. E se vi è un genere o categoria o costante, iconica o testuale, su cui il lavoro di Giambrone sembra indirizzarsi (se si vuole usare lo schema classificatorio proposto da Francesco Orlando nel suo classico studio su Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura) è di sicuro quello “venerando-regressivo” (che Orlando riferiva all’interno domestico dei crepuscolari, tende sbiadite, pianoforti, stanze che mostrano “la bellezza riposata dei solai”) perché più desueti sono gli oggetti dell’interno domestico, più forza avranno accumulato nel tempo, forza che si scarica sui corpi costruendo intorno ad essi una polvere, una pellicola di norme e di pratiche divenuta invisibile. Gli oggetti costitutivi di questo canone familiare sono, tra gli altri, i merletti, i servizi da tavola e le carte da parati, segni e insegne venerande-regressive di una dominazione mascherata da femminilità. Si tratta di una scena domestica dove il perpetratore è assente, dove la malignità delle norme emana dalle cose come una radioattività. E dove le cose, non le persone, segnano la soglia tra norma e anormale.
E dentro questa domesticità non più obbligatoria — privata del suo canone, dei suoi arredi sacri, dei suoi oggetti devozionali, delle sue pratiche ortodosse — diventa possibile riposizionare quelle che Sissa chiama “le insegne e le espressioni della femminilità”.
Marinella Senatore in dialogo con Lorenza Perini e Paolo Graziano
La recente “svolta partecipativa” nell’arte contemporanea e nelle scienze sociali ha messo in evidenza punti di contatto nuovi. Impegno e attivismo sono visti talora come forme d’arte, Claire Bishop ha teorizzato una forma di estetica partecipativa che ha messo in primo piano la figura dell’artista in armi. Mentre musei e curatori sono diventati rispettivamente luoghi e agenti di sperimentazione sociale.
Il lavoro di Marinella Senatore costituisce un momento importante in questa svolta, mette in crisi pertinenze, profili e dispositivi di un sistema che per secoli ha confinato l’arte e la sua fruizione in spazi caratterizzati da distinzione sociale ed esercizio dell’autorità. Usciamo, con questo lavoro, dai luoghi indagati da Losi e Giambrone, gli spazi della segregazione carceraria e domestica, ed entriamo in quella dimensione pubblica e partecipativa in cui registriamo con impressionante precisione quella che secondo un politologo del XX secolo, Carl Schmitt, era “l’irruzione del tempo nel gioco del dramma”. Irruzione nel senso di immissione di energia e di senso in uno spazio che si apre e si frattura.
Paolo Graziano, scienziato politico, collega il lavoro di Senatore ad alcune letterature politologiche che si occupano di temi evidenti in quel lavoro: il tema della democrazia partecipativa, le strategie dei movimenti sociali e le questioni relative all’acquisizione e alla contestazione delle identità collettive. Le immagini del progetto The School of Narrative Dance consentono di mettere in evidenza in particolare i limiti delle pratiche di democrazia partecipativa, e surrogare convenzioni e pratiche (come l’assemblea) che sempre rischiano di raffreddarsi, di proceduralizzarsi, di perdere quella creatività e quella forza sorgive che sono consustanziali al progetto democratico. The School of Narrative Dance è un esperimento narrativo multi-disciplinare ‘open-ended’ in cui danza, protesta, discussione e rito strutturano le vite dei partecipanti, mettendo in questo modo a disposizione dei movimenti un nuovo repertorio di azioni e di gesti capaci di drammatizzare contenuti sensibili sottraendoli, non solo alle pratiche socialmente sterili della democrazia rappresentativa, ma anche alle pratiche altamente ritualizzate di una democrazia partecipativa irrigidita nella ripetizione dei propri strumenti.
Lorenza Perini, anche lei scienziata politica, interviene mentre scorrono le immagini di Ladyfest Choir, un capitolo di The School of Narrative Dance che idealmente conclude le considerazioni di Graziano sui repertori. Perini mette in evidenza la relazione dialettica tra corpo e spazio, i reciproci condizionamenti tra due fatti sociali che si caratterizzano per la continua e incontenibile eccedenza del corpo rispetto allo spazio, che politicamente fatica a contenere e a farsi limite. La pratica di Senatore non si limita a drammatizzare e “mettere corpi in scena” ma trasforma lo spazio rinegoziando continuamente linee e perimetri di contenimento che esistono già. Senatore innesca processi, attiva situazioni perché quello spazio possa essere trasformato in direzioni che l’artista non controlla più, non vuole controllare più, posizionandosi su quel “margine” della scena, che è poi il luogo d’elezione della sua pratica, da cui osservare un movimento, una trama di gesti, un’idea di cittadinanza.