Hardcore linguistico.1 Maria Fusco e la scrittura interdisciplinare di

di 11 Giugno 2020

“Tell me stories!” è una rubrica sulla scrittura, a cura di Manuela Pacella. Uno spazio in cui testi di e su diversi autori indagano la scrittura d’arte, sperimentale, interdisciplinare, creativa e non.

Spilla comprata da Maria Fusco nel 1985 all’Arts Council Gallery di Belfast, realizzata da Mark Pawson.

Credo che per la scrittura d’arte ci sia molto da guadagnare dalla qualità “trasformativa” della narrativa, sia in termini di esattezza, sia in termini di rivisitazione del materiale.
Maria Fusco, 20092

Tu (Maria) dici che non c’è un modo giusto o sbagliato di leggere un testo. Concordo e ti ringrazio per l’enorme sollievo che questa affermazione, seppur ovvia, dovrebbe procurarmi. Eppure, come poi aggiungi, c’è una responsabilità etica che accompagna una lettura ravvicinata di uno scritto. Che fare, quindi, quando i molteplici testi che accompagnano la tua attività, non solo di scrittrice dei più variegati generi – fiction, opere radiofoniche, teatrali e filmiche, oltre che di critica d’arte –, ma di redattrice e insegnante, io poi li debba spiegare a un pubblico che conosce il tuo lavoro parzialmente, soprattutto perché non tradotto nella sua lingua, ossia l’italiano? Come restituire in forma chiara e sintetica un qualcosa che è frammentato, diversificato, culturalmente diverso e che inoltre si fonda sul concetto della frustrazione come stimolo di innovazione e conoscenza? Tutto quello che dici lo condivido e spero anche di metterlo in pratica, almeno nella mia attività curatoriale, dove il dubbio, l’incertezza, il fallimento e persino il buio dei traumi più profondi sono le uniche possibilità di cammino che ambisco a dare allo spettatore. Eppure, nella scrittura, non mi è così facile. Come affrontare, quindi, la responsabilità etica nello scrivere? Di chiarire al lettore ciò che legge per la prima volta?

Si dice che ci sono due tipi di pazienti: quelli che vogliono sapere tutto, mai totalmente soddisfatti; e quelli che si affidano ciecamente al medico tanto da attribuirgli doti quasi soprannaturali per poi, inevitabilmente, farlo precipitare dal suo piedistallo al primo accenno di umanità. Seppur convinta di appartenere in pieno (e purtroppo) al secondo gruppo, devo però ammettere di essere diventata parte a tal punto del primo da costituire l’incubo di molte categorie professionali. Ho sete di sapere. O, più precisamente, non dormo se non trovo la soluzione, quindi direi che la mia è più una sindrome ossessivo compulsiva di controllo. Ma a questa si unisce l’insano rapporto personale instauratosi con la tua scrittura, Maria, perché incontrata in uno specifico momento e in una città che ho poi scoperto essere la tua, da dove sei fuggita appena hai potuto3 e dove invece io torno quando ho bisogno di ricongiungermi con parti inconsce e profonde di me: Belfast4. Ed ecco che se penso a te, la memoria mi porta al tuo primo libro che ho letto, la raccolta di racconti brevi The Mechanical Copula5,  e a un parco specifico che solevo attraversare da Est Belfast, dove all’epoca risiedevo, alla più ‘tranquilla’ Sud, per le mie continue visite ai Botanic Gardens e all’Ulster Museum. Sì, l’Ulster Museum dove tu, con tuo padre italiano, passavi le giornate ad ammirare le opere d’arte esattamente come potevi guardare un animale impagliato, sviluppando sin da piccola una qualità a te cara: la possibilità di discernimento e giudizio personale di differenti oggetti. Avida di tutto, ti sei formata vedendo i più variegati film e programmi televisivi disponibili all’epoca della tua fanciullezza, piuttosto che su testi letterari – affrontati poi all’Art College di Sheffield, nel nord dell’Inghilterra, dove hai studiato scultura. Ecco che quello sguardo che su tutto si posa deve per forza divenire critico per formare un proprio e personale punto di vista.
Ci siamo. Direi che questo è l’approccio che tu hai con la scrittura e che hai voluto sin da subito dare al dipartimento dell’Art Writing al Goldsmiths di Londra quando sei stata chiamata a dirigerlo nel 2009.

Ora posso rivolgermi a voi, cari lettori. Vorrei farvi capire perché considero Maria Fusco un modello da seguire, per la sua attività accademica ed editoriale, oltre che un’autrice da leggere6.
Fusco è nota al mondo dell’arte contemporanea non solo e non tanto per i suoi contributi su Frieze o su Art Monthly, ma per aver dato un volto innovativo alla scrittura d’arte inserendo una forte carica sperimentale in seno a contesti accademici, prima di tutto presso l’Art Writing del Goldsmiths (dipartimento che non esiste più da quando nel 2013 Fusco è andata a insegnare in Scozia, in qualche modo confermando che tale approccio segue la sua più ferrea militante laddove lei viene chiamata). Il cardine attorno al quale viene impostato il corso è quello di considerare la scrittura una pratica “studio-based” (la scrittura in sé e non lo scrivere “su”) e di indagare, insieme a colleghi e studenti provenienti da altre discipline, cosa la scrittura d’arte possa essere e non cosa sia già. Nel 2011 pubblica un vero e proprio manifesto, insieme a Yve Lomax, Michael Newman e Adrian Rifkin: 11 Statements Around Art Writing. Tra le dichiarazioni ancora oggi considerate il fulcro del suo pensiero vi sono la n. 7 “La scrittura d’arte è un’antologia di esempi” e la n. 8 “La scrittura d’arte si reinventa in ogni singolo caso, determinando i propri criteri”7.
Fusco spiega ogni dichiarazione attraverso casi studio, ossia con esempi di testo8. Molto raramente si troverà totale chiarezza nelle sue parole perché il suo approccio è sempre e solo attraverso la pratica, l’analisi del testo, soprattutto se letto ad alta voce (“usare la voce come strumento editoriale”9), in pubblico, e analizzato singolarmente e in gruppo. E se nel 2011 era fondamentale poter dare una definizione di “Art Writing” per introdurla in maniera chiara e forte, oggi definisce questo tipo di scrittura più propriamente “interdisciplinare”. L’idea, inoltre, di uscire da un approccio storico-artistico rivolto solo al passato e di affrontare quello che la scrittura è nel suo farsi e in divenire è qualcosa che spiega nel testo citato in epigrafe a questo, Don’t Say Yes – Say Maybe! Fiction Writing and Art Writing. Qui l’autrice auspica “una direzione non sequenziale, anti-suspence” della scrittura che, purtroppo, in alcuni casi, non può essere messa in pratica (ad esempio nel caso delle recensioni di mostre). Prendendo Il Terzo Poliziotto di Flann O’Brien come esempio di primo romanzo postmoderno, introduce un campo di lavoro molto importante, quello di redattrice:
“Quello che mi interessa davvero discutere in questa sede è la potenzialità di forme più precise di produzione di scrittura (attraverso il mezzo della narrativa), che possano essere applicate in maniera attuale nei momenti opportuni. A questo scopo ho fondato The Happy Hypocrite, una nuova rivista per e sulla scrittura d’arte sperimentale. Si spera che questa pubblicazione semestrale incoraggerà, metterà alla prova e costruirà una comunità attorno alle forme divergenti di ‘scrittura’, affrontando la mancanza di spazio che hanno gli scrittori d’arte che si allontanano dalla forma della recensione tradizionale”10.
The Happy Hypocrite è oggi al suo dodicesimo e ultimo numero (in uscita “sospesa” causa COVID-19). Pubblicata da Book Works di Londra due volte l’anno dal 2008, tematizzata per metodologia piuttosto che per soggetto, la rivista ha accolto contributi internazionali sia attraverso inviti sia con open submission. L’ultimo numero, come i primi cinque, è edito da Fusco mentre gli altri hanno accolto redattori ospiti. In questa sede, di carattere aperto e internazionale, la scrittrice ha potuto dare concretezza al suo pensiero attraverso il dibattito continuo con le fonti primarie, ossia i testi. Considera, infatti, l’attività di redattrice essenziale per il progredire della sua stessa scrittura, proprio come lo è il dibattito attivo con gli studenti, una sorta di editing collettivo volto a quella responsabilità etica verso il testo di cui si diceva in apertura11.

Ho sempre ritenuto la maggior parte dei titoli scelti da Fusco, compreso il sublime The Happy Hypocrite, tra le caratteristiche più fresche della scrittrice. Di recente ho compreso come l’origine di molti di essi è una citazione diretta o velata. Questa “rivelazione” ha confermato ancora una volta come la citazione non sia altro che un’appropriazione creativa e deliberatamente controcorrente rispetto alla forzata originalità che ciascuno di noi vuole sempre trovare. In realtà la citazione messa ad arte e a titolo ravviva l’origine e rende personale la relazione. Se The Mechanical Copula è un riferimento da una parte dotto – l’ultima scena del Casanova fellininiano in cui il protagonista danza e poi fa sesso con una bambola – nasconde anche una sua passione (forse ossessione) verso l’attore Donald Sutherland sui cui film degli anni Settanta e Ottanta Fusco sta portando avanti un progetto che sembra non avere mai fine12, The Happy Hypocrite è invece preso direttamente in prestito dall’omonimo racconto del 1897 di Max Beerbohm. Nel 2017 viene pubblicato da New Documents Give Up Art dove sono riuniti molti dei suoi testi più strettamente legati alla critica d’arte. In questo caso il titolo è preso da una spilla che Fusco comprò all’età di circa tredici anni quando era ancora a Belfast, in quella che poi seppe essere la galleria dell’Arts Council, in seguito fatta esplodere durante i “Troubles”. Comprata prevalentemente perché le piaceva il font e il colore, Fusco si è poi chiesta il perché questa spilla continuasse a far capolino nella sua vita; facendo un po’ di ricerche ne ha scoperto l’autore, Mark Pawson, e l’origine storica, incorretta. Ha letto, infatti, che venne prodotta negli anni Novanta per l’Art Strike quando invece la sua biografia con certezza le dice che doveva essere circa il 1985, ossia quando l’ha acquistata. Su questa inesattezza storica che stride con la precisione della propria memoria si basa il titolo del libro che accoglie una selezione di testi critici datati tra il 2002 e il 2017 e che sembra quasi invitarci a lasciar perdere l’arte o, più correttamente come lei mi ha suggerito, l’apparenza.

Ma la pubblicazione più liminale e criptica – tanto da essere stata inserita in una mostra di libri del 2017 a Mexico City sul tema dell’illeggibilità13 – è With A Bao A Qu. Reading When Attitudes Become Form14; onestamente per me in origine un prodotto a dir poco ostico, nonostante l’apparente facilità del titolo che include una delle più famose mostre di arte contemporanea mai realizzate. La prima parte della titolazione è il nome di una leggendaria creatura de Il libro degli esseri immaginari di Jorge Luis Borges del 1969. La seconda, invece, è When Attitudes Become Form, la mostra di Harald Szeemann dello stesso anno appunto. Se l’origine di questa pubblicazione risale al reenactment della mostra di Szeemann realizzata da Germano Celant alla Fondazione Prada di Venezia nel 2013, per il cui catalogo Fusco ricevette la commissione di ragionare e scrivere sull’innovativo prodotto editoriale del 1969, l’esito, invece, devia dall’obiettivo iniziale per diventare testo a sé e grazie a un episodio personale. Questo libro racchiude due principi essenziali di Fusco, da una parte un archivio che lei definisce “egoista”, ma che io invece preferisco chiamare “un archivio del sé” e, dall’altra, la dichiarazione n. 7 del manifesto del 2011: “La scrittura d’arte è un’antologia di esempi”. Il sé in Maria Fusco non è quel dato biografico enunciato in maniera chiara attraverso digressioni mnemoniche o emotive; a volte non è neanche dichiarato ma è solo lo spunto che dà origine a qualcosa, come la spilla acquistata da adolescente; è un contenuto a volte nascosto che ha acceso la fiamma che ha prodotto l’opera. In questo caso, sfogliando il catalogo originale del 1969 di When Attitudes Become Form, alla pagina relativa a Pier Paolo Calzolari, Fusco ha trovato una somiglianza bizzarra. La riproduzione fotografica che ritrae Calzolari bambino le ricorda incredibilmente una fotografia di se stessa da piccola; per lei sono quasi sovrapponibili. La sorpresa deriva probabilmente dal fatto che Fusco da bambina non assomigliasse molto ai suoi coetanei nordirlandesi, avendo origini italiane. Vedere se stessa in Calzolari ha creato un cortocircuito emotivo che l’ha portata a scrivere non più un saggio ma un libro sperimentale, illeggibile e fluido allo stesso tempo15.

Pagina del catalogo del 1969 di When Attitudes Become Form alla voce di Pier Paolo Calzolari con la fotografia di Maria Fusco da piccola.

Il linguaggio di Fusco – diretto, duro, dialettale, assurdo – diviene scultoreo quando lo si ascolta. Questo capita qualora venga non solo letto dall’autrice ma reso sceneggiatura per opera. Si tratta, ad esempio, della prestigiosa commissione del 2015 di Artangel e BBC Radio 4, Master Rock e dell’opera ECZEMA! andata in scena per la prima volta al National Theatre Wales il 28 luglio 2018.
Master Rock è una trasmissione radiofonica, un testo per tre voci e suono dal vivo composto da Olivier Pasquet all’interno della montagna scozzese Ben Cruachan dove nel 1965 Elisabetta II ha inaugurato un’immensa centrale idroelettrica. Il progetto è stato accompagnato dall’omonimo libro edito da Book Works nel 2015 e ne esiste una versione video con materiali d’archivio.
ECZEMA!, invece, è una performance realizzata per il settantesimo anniversario di NHS in cui Fusco analizza cosa significhi convivere con l’eczema, malattia della pelle di cui sono afflitte 15 milioni di persone nel Regno Unito, inclusa lei. Un’opera per voce e organo, recitata da Rhodri Meilir e suonata da John Harris. Un testo in cui il personale diviene ora emotivo, laddove frustrazione, rabbia, stanchezza, routine emergono con la stessa forza e caparbietà della malattia di cui narrano la convivenza quotidiana. Ed ecco che le parole si fanno tangibili, urlate, hardcore:
La mia casa va a fuoco! Non sudo. Senza sudore. Nessuna sudorazione. Non ho bisogno di un deodorante. La mia casa va a fuoco! Sono a secco. Un falò vorace. Lambita dalle fiamme.
Scintillante. Il mio frenetico bagliore. La mia casa va a fuoco! Tutte le porte sono chiuse. Tutte le finestre sigillate. La mia casa va a fuoco! Il giorno più caldo che si possa immaginare. Soffocante. Non riesco a riprendere fiato. La mia casa va a fuoco! Calore turbolento. La mia casa va a fuoco! Ha bisogno di essere alimentata. Combustione in movimento. La mia casa va a fuoco! Nulla può uscire. Il calore scorre verso l’interno. La mia casa va a fuoco! Le fiamme mi leccano sotto la pelle. Non posso spegnerle. Mi bruciano viva. Sono Giovanna d’Arco. La mia casa va a fuoco!

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