Tradurre in modo contemporaneo un linguaggio classico o tradizionale utilizzando gli elementi e stilemi caratterizzanti di un tempo è complesso. Non solo. È insidioso. Appena si tocca il patrimonio storico, artistico o sociale, sale la levata di detrattori e difensori, dunque l’operazione risulta anche pericolosa.
È essenziale conoscere la storia quanto il linguaggio attuale e i suoi nuovi alfabeti digitali, altrimenti, la storia si ripete solamente. Con un ritmo asincrono e fuori tempo. Chi è troppo legato agli archetipi e terrorizzato dal gioco rischia di atrofizzare la storia stessa. Un esempio si è auto messo in scena pochi giorni prima della sfilata di Dior. Lo shooting di Vogue Hong Kong con Chiara Ferragni agli Uffizi. Polemiche dei benpensanti, spesso tromboni. E qui mi dico “ma se non ci va lei, chi potrà farlo?” Non dobbiamo forse costruire nuovi codici e liberare le generazioni prossime da un’idea di cultura elitaria che non condivide nulla se non lo sdegno intellettuale di aver profanato un tempio del sapere?
A giugno, durante una conferenza stampa in streaming, il presidente e CEO di Dior, Pietro Beccari, insieme a Maria Grazia Chiuri hanno ribadito l’emozione che il lusso può e deve restituire al pubblico: “Quando si tratta di moda, nulla è più emozionante di una vera e propria sfilata” aveva spiegato Beccari “Con questa azione, vogliamo mandare un messaggio di speranza, ottimismo e, per alcune persone, si tratta di una rinascita dopo un periodo di grande difficoltà”.
L’operazione di Maria Grazia Chiuri è molto complessa e sofisticata. Mai come in questa sfilata, (e in nessuna sfilata, in genere, era mai successo), Chiuri ha rispettato il territorio e le sue infinite declinazioni sociali, culturali, economiche. Dalla produzione delle luminarie, ai fotografi locali, dall’orchestra ai tessuti, alla bibita. Il pubblico (oltre 22 milioni di visualizzazioni al primo giorno) è stato travolto dalla potenza magica di quel mix di colori e ‘rituali’, che ogni passo della sfilata portava al mondo.
Le luminarie, come da tradizione, si accendevano man mano che l’orchestra della Notte della Taranta incalzava le prime note, al centro di Piazza del Duomo a Lecce. E quella voce femminile forte e rigorosa, che segna ancora i miei brividi, ha stregato il pubblico ristretto, non una sfilza di Vip e giornalisti accreditati da tutto il mondo. A Lecce c’è stata una inversione. Una coerenza sublime e suprema: solo addetti ai lavori, gli artigiani e qualche stretto amico di Maria Grazia e della Maison. Less is more. E il “more” è il territorio del Sud del Mondo.
Un crescendo linguistico e visivo, un climax poetico da mettere gli occhi lucidi allo sguardo.
Se avessi mai immaginato un allestimento ‘significante’ delle feste di paese nel Salento, le avrei sperate proprio così: su ogni lato, scritte femministe, scritte che sostengono il duro lavoro e la lotta per l’uguaglianza – temi che sembrano sempre affrontati ma mai digeriti – che ancora sono lontani dall’esser stati risolti.
“La differenza per le donne sono i millenni di assenza dalla storia”, “si può creare la rivoluzione senza farla”, alcune delle frasi tra le luminarie di Marinella Senatore. Luce e ancora luce al suo impegno sociale.
La sfilata comincia e le modelle si intersecano in un gruppo di ballerini di pizzica, passando attraverso le loro danze e gesta. Si intravedono i tagli riconoscibili, il signature touch di Maria Grazia Chiuri, tra vestiti in tulle, ricami e trasparenze sottilissime. Gonne lunghe e completi in cotone ad intervallare i capi con rosellone ricamate attraverso la tradizione del tombolo (ispirato ad un abito Miss Dior del 1949). Tutti i tessuti sono il lavoro di una fondazione di donne tessitrici di Lecce, le Costantine. La forza delle donne è dentro i vestiti. La passione è dentro ad ogni passo. La determinazione sfila. Non è moda, è vita. Non sono vestiti. Sono manifesti progettuali. Non è importante chi se li può permettere, ma quello che dicono. E qui il tratto democratico, unico, sovversivo di Maria Grazia Chiuri.
Lo spettacolo continua. I danzatori, dopo aver girato per tutta la piazza, escono di scena. Buio. Una voce familiare intona Lu rusciu te lu mare per finire con Meraviglioso. È Giuliano Sangiorgi dei Negramaro con quel falsetto, scale e vibrazioni della terra che porta dentro. Lascia il palco con un manifesto vocale: ‘Buonanotte dal Sud del mondo’. Tutti i Sud del mondo. Fisici e immateriali. Quelli per cui combattere. Quelli da mettere in scena.