Federico Pepe su “Password” di

di 2 Luglio 2020

La conversazione che segue si focalizza su “Password”, ultimo lavoro di Federico Pepe ideato e sviluppato da Le Dictateur Studio. Il progetto coinvolge otto curatori – Cloe Piccoli, Gianluigi Ricuperati, Carlo Antonelli, Saul Marcadent, Caroline Corbetta, Davide Giannella, Antonio Grulli, Marco Tagliafierro – e raccoglie brevi scritti di ognuno di loro sviluppati attorno una parola chiave che idealmente è significante e rappresentativa del periodo di ripresa dopo la pandemia. L’output del lavoro è un podcast con una linea visiva che accompagna l’ascolto ancora una volta funzionale a dare solidità e memorabilità alle parole, esulando da una dimensione di mero intrattenimento.

Marco Tagliafierro: L’associazione espressiva tra due testi comunicati attraverso due diverse sfere sensoriali è nota come una forma di sinestesia. Con “Password” viene espresso il rapporto sinestetico o meglio sinestesico tra un testo recitato e un testo scritto e interpretato per la sua valenza estetica. Che genere di processualità ha portato a questo risultato?
Federico Pepe: Durante il lockdown abbiamo deciso di coltivare una dimensione di proposizione condivisa alla ricerca delle parole chiave capaci di riavviare il sistema.
Il testo scritto dai curatori è stato recitato da attori e attrici professionisti, quasi tutti provenienti dal teatro, con l’obiettivo di drammattizzarli. Ciascuna parola è diventata un podcast.

MT: Otto visioni sul futuro nella cui restituzione convergono scrittura, recitazione e visualizzazione. Quale tipo di esperienza intendevi progettare?
FP: Scrivere e recitare sono due lavori differenti. Visualizzare è un terzo ambito che abbiamo incluso per allargare il podcast a una dimensione visiva, anche se non propriamente filmica. L’intento è progettare un’esperienza immersiva sulla parola che si sta narrando: enunciarla, sviscerare da essa il suo suono, accompagnare la sua definizione al tentativo ambizioso di visualizzarne il suo significato. È un lavoro concettuale.

MT: Password porta in sé una riflessione circa l’evoluzione del podcast?
FP: Ho sempre cercato di spingere i media che ho frequentato e che frequento al limite delle loro possibilità: cerco di instaurare un rapporto mai lineare o definito. Mi interessa traslare diverse discipline una dentro l’altra. L’ho fatto con la tipografia, soprattutto con Le Dictateur (la serie di artist books) portando il mezzo della stampa a dialogare in certi casi con la scultura, con il video. Ho continuato con il progetto COCO che porto avanti da qualche anno insieme all’amico artista Jacopo Benassi, dove il flusso visivo diventa un immaginario spartito sul quale i musicisti selezionati costruiscono le loro colonne sonore.
L’ho inteso come cifra della mia pittura, del design e della scultura che cerco di gestire in maniera totalmente arbitraria quasi fosse un’unica disciplina o piattaforma portando liberamente segni, spazi, cromie, icone, pensieri, gesti da una parte all’altra. Senza che ci sia alcuna preclusione tra esse. “Password” non poteva certo essere immune a questo continuo spostamento e riposizionamento di significati e utilizzi. Si incontrano il mondo del podcast, della parola narrata, e le visioni ubriache dell’elefantino e del suo amico topo nel film DUMBO. La creazione tipografica e l’idea del branding ossessivo legato alla parola. Il tentativo di portare il LOGOS, il verbo, quello del Prologo di Giovanni vicino ad un’idea più segnica, sintetica. Il LOGOS diventa LOGO. Tutto questo evitando che la variabile video, immaginifica, diventi banale intrattenimento ma solo un tentativo di solidificazione del LOGOS, del verbo.

MT: L’attenzione analitica rivolta all’evoluzione dei font rivela forse un tuo interesse per la Poesia visiva?
FP: Non sono uno studioso o un virtuoso dei “font” come li definisci tu, sono prima di tutto interessato al significato di cui sono eventualmente portatori. Anche con “Password” ci siamo confrontati con la composizione grafica, tipografica e la natura scultorea del 3d piuttosto che con la creazione del singolo font.
Il fine ultimo non è mai stato quello di disegnare un bel font o una buona animazione. Anche la Poesia visiva è maggiormente legata all’idea compositiva piuttosto che alla creazione del lettering, detto questo non ho mai veramente avuto in testa la prospettiva della Poesia visiva come target finale o come modello. L’estenuante ricerca e esplorazione di modi, tecniche, virtuosismi, applicazioni, sono semplicemente funzionali a ribadire il messaggio del lavoro.
Ognuna di queste discipline ha le sue regole, il suo modo e il suo mondo ma gestite insieme spesso finiscono per fondersi l’una nell’altra. Basta lasciare la porta aperta.

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Marco Tagliafierro