Contro il blocco dello scrittore. Dodici note su Kenneth Goldsmith e l’estasi dell’ordinario di

di 10 Luglio 2020

“Tell me stories!” è una rubrica sulla scrittura, a cura di Manuela Pacella. Uno spazio in cui testi di e su diversi autori indagano la scrittura d’arte, sperimentale, interdisciplinare, creativa e non.

La nuda schermata di riavvio del sistema video di un aereo.

“…l’idea di narrativa o finzione, di produrre verisimilitudine usando personaggi e trame – idee vittoriane davvero poco credibili. Quelli della “scrittura creativa” vivono in qualche secolo del passato, in qualche pianeta del passato. Credono ancora in questa ideologia terapeutica del cavolo di lasciare che gli studenti esprimano il loro sé interiore, e queste piccole epifanie di fuffa lirica; capisci cosa intendo, è uno scherzo, un pessimo scherzo.”
— Bruce Andrews

Sono diventato un maestro della tastiera, un asso del copia&incolla, un demone dell’OCR.
— Kenneth Goldsmith

La scrittura sta cinquant’anni indietro rispetto alla pittura.
— Brion Gysin

Se avessi seguito in modo schematico l’insegnamento di Kenneth Goldsmith, questo testo sarebbe dovuto essere molto più breve (volendo di sole quattro righe), e avrebbe affermato in modo lapidario che il mondo è già pieno di testi e che non ha proprio senso ostinarsi ad aggiungerne altri 1. L’alternativa sarebbe stata il plagio, probabilmente sotto forma di patch-writing 2. Sarebbe potuto finire qui.

Per fortuna non c’è niente di schematico nelle idee di Goldsmith, né in questo testo, che invece consiste in dodici note sparse, su un tema molto vago e allo stesso tempo specifico: il blocco dello scrittore. Un mito “negativo” che gli scrittori di oggi continuano a chiamare in causa come fosse una maledizione, forse per dare sostanza alla più antica delle convinzioni, ossia che a dominarli ci sia una forza esterna, incontrollabile, che di solito chiamiamo ispirazione. Sembrerà un dettaglio, ma è proprio lì dietro che si nasconde un’intricata rete di convenzioni e ideologie che Goldsmith ha sempre deciso di rifiutare.

Kenneth Goldsmith and Fox Irving, 5:13 PM – 6 Nov 2014 (Mapplethorpe), 2014. One and three twits, 2015. Courtesy galleria Freddy, Baltimora.

1.
Ad essere onesti, entrambe le soluzioni proposte all’inizio, per quanto radicali, sarebbero state legittime in relazione alla sua idea di linguaggio. Prima nota utile: nell’idea di scrittura proposta da Goldsmith, bisogna considerare e accettare un certo grado di radicalismo. Non saprei dire se Goldsmith è più poeta, artista visivo, teorico o scrittore3. Di sicuro però il suo più importante contributo in termini di linguaggio è quello che riguarda la scrittura non creativa. Secondo questa poetica tutto è lecito in scrittura, anche il semplice fatto di copiare un testo e firmarlo col proprio nome (il più grande tra i tabù della letteratura). È una poetica molto più ampia e sofisticata del semplice copia e incolla, ma si può tranquillamente riassumere in quel gesto.

2.
Seconda nota utile: meglio essere critici con se stessi. Ogni volta che scriviamo, magari presi da un’improvvisa ispirazione, convinti di metterci a nudo sulla pagina bianca, ecco, in quel momento, molto probabilmente stiamo solo rielaborando una serie precisa di influenze e suggestioni, oltre che strutture, che in quel momento forse ignoriamo, ma che ci influenzano pesantemente sia nei contenuti sia nello stile. Non sempre, ma molto spesso è così; soprattutto in ambito accademico e letterario. Terza nota utile: vi è mai capitato di leggere qualcosa e di avere voglia di fermarvi e provare a scrivere in quel modo, di quei temi, con quello stesso stile e registro? Allora forse saprete che è meglio copiare, trascrivere, appropriarsi di frasi e frammenti, anziché imitarlo. Cosa succede se invece proviamo a partire dall’estremo opposto, decidendo di cancellare la nostra “creatività” e di usare solo parole altrui? È probabile, ci direbbe Goldsmith, che col solo atto di selezionare e poi sistemare quelle parole, nel tentativo di dargli senso e “farle nostre”, finiremmo per essere molto più precisi, limpidi e in fin dei conti “originali”.

Kenneth Goldsmith. Fotografia di C. Jones.

3.
Questo è il quadro generale. La sovrabbondanza di testi a cui siamo esposti oggi, una jungla ipertestuale-mediatica senza precedenti, ci chiede prima di tutto di imparare a maneggiare, gestire, processare, comprendere e riutilizzare (ossia anche a plagiare, copiare, programmare, rifiutare, ecc.) questa enorme quantità di informazioni. Di conseguenza, dobbiamo riconsiderare i nostri strumenti da scrittori.
Il primo passo è una specie di “emancipazione dello scrittore”, che avviene soprattutto attraverso la tecnica e la tecnologia. È un dato importante, alla base, per esempio, delle sue lezioni all’università e del suo rapporto con gli studenti4. Kenneth Goldsmith cerca una poetica del presente, e la sua idea di scrittura, quella che tenta di trasferire anche ai suoi studenti, coincide fondamentalmente con la “gestione delle informazioni”. Non dobbiamo aver paura di accumulare linguaggio, copiare, incollare, adottare processi e funzioni automatiche, software. Dobbiamo aprire le porte a tutto quel linguaggio in eccesso che abita il quotidiano, l’ordinario. Quella enorme massa dai contorni indefiniti che, in un modo o nell’altro, entra ogni giorno all’interno delle nostre vite, sotto forma di parole, segni, voci, suoni. Dagli annunci privati sui giornali agli avvisi di sicurezza in metropolitana, dalle pubblicità sui cartelloni alle stringhe di news nei telegiornali, dai referti medici al codice delle pagine HTML. Se ci mettiamo in ascolto di questo vociare astratto, potremmo rimanere stupiti dalla poesia che si nasconde al suo interno. La scrittura deve continuamente sporcarsi nella materia e nel tempo.

4.
Siamo forse arrivati al punto: l’idea che ci si possa bloccare di fronte alla pagina bianca, per mancanza di ispirazione, è preoccupante; ma più che altro è ridicola. Invece di rifarsi ai miti dell’autore solitario, assalito da quella maledizione pseudo-mistica che chiamiamo blocco dello scrittore, è molto meglio tuffarsi nel mare sporco del linguaggio ordinario. Per trovare oggi una scrittura nuova, che ci offra scorci di bellezza, senso e denuncia ancora mai visti, dobbiamo imparare a trattare gli eccessi di senso di quel magma vorticoso. Dovremmo in definitiva farci trovare sempre pronti ad affrontare, immaginare e ripensare l’enorme serbatoio di pensiero scritto a cui tutti abbiamo accesso.

5.
Forse è utile un esempio da un altro campo. Hillary, The Hillary Clinton Emails5 è uno dei suoi ultimi progetti artistici. Al primo piano di un supermercato Despar di Venezia, che prima era un noto cinema, Goldsmith ricrea una versione astratta dell’oval office della Casa Bianca. Di fronte alla grande scrivania, sui lati, sono disposti dei tavoli sui quali consultare i faldoni d’archivio disposti in perfetto ordine sulle librerie bianche. In quei raccoglitori vengono rese pubbliche, in forma stampata, le 62.000 pagine di email inviate e ricevute dal server personale di Hillary Clinton, alla base dello scandalo scoppiato durante la campagna presidenziale del 2016 contro Donald Trump. Ad una prima lettura, potrebbe sembrare un lavoro di denuncia, soprattutto se si pensa che è un’operazione portata a termine grazie anche ad avvocati, programmatori, e ai server di wikileaks. Ma la verità è che Goldsmith ha preso alla parola l’ex-segretario di Stato americano quando, assalita dalle accuse, per dimostrare la propria presunta innocenza ha detto pubblicamente «vorrei tanto che qualcuno stampasse quelle mail…». Ora lo sappiamo, è un campionario di banalità, commenti, scambi inutili e superficiali, conditi da momenti di involontaria ironia o di angosciante burocrazia. È quindi, in fondo, una specie di racconto corale che già di per sé possiede delle qualità letterarie. Ma c’è un legame doppio e ambiguo con l’idea di racconto: una volta pubblicato, questo enorme archivio di email disvela anche una storia mancata, un racconto che non c’è, un’epica sostanzialmente vuota. Se c’è una denuncia, è verso l’assoluta e mostruosa banalità che accompagna certe grandi narrazioni contemporanee. Quarta nota utile: in realtà tra tutte queste cose ce n’è anche un’altra, forse più frivola, ma decisamente goldsmithiana: questo enorme serbatoio di email è stato in parte censurato. Alcuni dati sensibili, come i nomi e gli indirizzi privati delle persone coinvolte, sono stati oscurati. Informazioni che una volta cancellate restano sulla pagina sotto forma di rettangoli neri. Goldsmith ci vede una bellezza spontanea e casuale, attraverso cui riappare per incanto il fantasma della poesia visiva. Chi avrebbe mai detto che dietro dei documenti tecnici come delle email, senza bisogno di editing, interpretazioni o spiegazioni, si celasse un serbatoio immenso di senso, storia, ideologia, ispirazione, comicità, dramma, politica e poesia d’avanguardia?

6.
Una delle più note analogie di Goldsmith è quella che, pensando alla scrittura, mette in parallelo l’avvento di Internet con quello della fotografia in relazione alle arti visive. Internet ha definitivamente messo in discussione la scrittura come disciplina intoccabile, destituendola della sua presunta autonomia. Goldsmith muove in effetti una precisa accusa al mondo letterario: ossia un’inspiegabile e sorda impermeabilità rispetto alle istanze più innovative del Novecento. Sostenuto da schiere di poeti, scrittori e artisti come Brion Gysin, Cory Doctorow, Bruce Andrews e Simon Morris, o da figure di spicco della critica letteraria come Marjorie Perloff6, Goldsmith sostiene che la letteratura è tuttora dominata da idee e convinzioni che in altre discipline sono ormai storia del passato. Vede un campo d’azione obsoleto, un mondo antico, romantico, incapace di fare i conti con le strutture del mondo contemporaneo. Se nelle arti visive e nella musica i miti dell’originalità e dell’autorialità sono stati già affrontati e anche risolti – pensiamo a Marcel Duchamp, John Cage, Andy Warhol, Richard Prince, o alla tecnica ormai normalizzata del campionamento musicale – nella scrittura continuano invece ad esserci dei silenziosi e inamovibili tiranni. Tra gli scrittori, a dominare sono ancora gli stanchi miti dell’Ispirazione, della Verità e del Genio individuale. «I poeti che oggi contano, quelli cioè che vincono i premi, sono l’equivalente di un pittore figurativo ottocentista di stampo accademico. Persone che non si sono rese conto che, nel frattempo, c’è stato il modernismo», dice Goldsmith.

Un dettaglio da Printing Out The Internet, il progetto con cui Kenneth Goldsmith voleva stampare su carta l’intero internet.

7.
L’allargamento degli orizzonti della letteratura è fondamentale, ma se non andiamo oltre la questione tecnica, resteremo in una dimensione poco interessante del discorso. Gestire le informazioni è di per sé un fatto non necessariamente poetico o letterario. Pensiamo alla redazione di un piccolo quotidiano online: è molto probabile che nessuno al suo interno scriva “veramente”. La maggior parte del tempo viene impiegata a leggere e filtrare le notizie. Poi si copia, si incolla, si aggiusta, si abbellisce, si mette un titolo e si propone la “propria” linea editoriale. Quinta nota utile: ad essere spietati, potremmo dire che già leggiamo, scriviamo e parliamo tutti in modo “non creativo”, anche quando siamo al bar o ad una cena.

8.
In che modo quindi questo linguaggio dell’ordinario può diventare significativo? Dove è lo scarto? In un’intervista7 Goldsmith afferma con tono piuttosto sicuro una cosa non così originale (appunto), ma interessante se presa dalla nostra prospettiva: “sono interessato alla de-familiarizzazione delle strutture normative del linguaggio”.
E dove va a cercare queste nuove ed inesplorate strutture del linguaggio in grado di mettere in crisi norme e convenzioni? Di certo non davanti ad una finestra al tramonto, o di fronte alla pagina vuota, o nel silenzio di una capanna disconnessa dal mondo, alla ricerca di un’ispirazione che tarda ad arrivare, supplicando le muse di metterlo in condizioni di reinventare le regole e le convenzioni del linguaggio contemporaneo. No, per Goldsmith nessuna musa che non sia un processore, un registratore audio o una xerox. Le risposte semmai sono nei fiumi di parole in piena che spesso abbiamo paura di attraversare, perché lì tutto è letteratura: anche una lunghissima lista di parole che finiscono con la “schwa8, anche il menù di un ristorante, anche i verbali di un tribunale o la trascrizione di una serie di ritornelli sbagliati di celebri canzoni pop. Persino le stringhe in codice di un file .jpeg possiedono una loro intrinseca bellezza e, cosa meno scontata, un possibile senso. Sesta nota utile: è la stessa bellezza che ha reso possibile la poesia concreta. Anche nel codice si manifestano ripetizioni, allitterazioni, improbabili onomatopee, pattern visivi. È un mondo di rivelazioni, analogie. Tutte queste manifestazioni di bellezza, queste pseudo-estetiche d’avanguardia, sembrano verificarsi continuamente nell’ordinario. Ma non si stabiliscono in una dimensione storica, cioè non derivano da un processo di influenze o filiazioni artistiche dirette. Quelle che emergono sono delle apparizioni, nelle quali può capitare che il fantasma delle avanguardie compaia senza spiegazioni dal codice alfanumerico di un .mp3

L’immagine di una litografia che ritrae Shakespeare, prima e dopo l’inserimento del testo di un intero suo sonetto nel codice sorgente del file .jpeg.

9.
“The writing is the idea and the idea is the writing”. In ambito letterario il modo di fare di Goldsmith ha un nome, conceptual writing, scrittura concettuale. Intorno al 2007 Goldsmith diceva che era «la poetica del momento, in grado di fondere gli impulsi d’avanguardia del ventunesimo secolo con le tecnologie del presente». Ma nonostante il ricorrente legame con le avanguardie, per Goldsmith il compito di chi scrive non è più quello di distruggere o atomizzare il linguaggio. A quello ci ha pensato il modernismo, in quel senso non resta molto altro da fare. Tornare indietro è impossibile, ma spingersi oltre sarebbe antistorico. Quello che possiamo fare, ci dice in tutti i modi Goldsmith, è ricostruire in modo nuovo quell’antico corpo ridotto in mille pezzi, riconoscendone le fratture e i vuoti, ma pensandolo sempre nell’insieme. Se il modernismo ha disintegrato il linguaggio, la nostra epoca lo ha accelerato e moltiplicato a livelli esponenziali. Noi lo possiamo detournare (per usare un’espressione situazionista, a cui Goldsmith è molto legato) così da applicarvi ancora una forza disgiuntiva. Non con l’esplosione del senso, ma con un’operazione “concettuale” di riposizionamento, o addirittura di disvelamento. Settima nota utile: per capire meglio questo aspetto dovremmo riconoscere il linguaggio come materia opaca, viscosa, non trasparente, che trattiene in sé, inspiegabilmente, tutta una serie di sensi e significati nascosti e contestuali.

10.
Siamo arrivati quasi alla fine, nel senso: che cosa succede se accettiamo tutto questo? Possiamo immaginare per esempio che ad un certo punto si verifichi una forma di annullamento della differenza tra scrittore e lettore? Forse non tanto nel senso che chi scrive finisce per farlo per se stesso (che pure può essere), ma per il fatto che leggere diventa la sostanza stessa della scrittura. Il vero plagio per esempio (se mai esistesse un finto plagio) avviene nell’atto di leggere, non nel riscrivere. Plagiare, nel migliore dei casi, significa aver capito un testo, aver risputato un pensiero altrui in un nuovo atto di scrittura: chi copia è sia lettore sia scrittore, ma non per questo è meno lettore o meno scrittore di altri. Potremmo persino arrivare a immaginare una letteratura creata da macchine per altre macchine, che non ha bisogno dell’uomo. E se l’uomo scomparisse, che fine farebbe il discorso etico? Ma anche se non scomparisse, se mi appropriassi semplicemente delle parole altrui, ricontestualizzandole in un discorso nuovo, in che misura ne sarei “responsabile”? Se non le ho scritte “veramente” io, devo comunque pagarne lo scotto etico? E sarebbe giusto altrimenti restare immune al giudizio etico e politico rispetto a ciò che ho deciso di presentare come “mio”9?

L’immagine di un cerchio rosso salvata in formato .txt

11.
In mente ho un’immagine indefinita, sempre diversa, di una ferita non sanguinosa, che forse assomiglia più a uno strappo violento. Una rottura nel tessuto del reale da cui fuoriescono fiotti incontrollati di una lingua incomprensibile. È una visione, anzi una rivelazione. È notte, un aereo sta attraversando l’oceano e mentre all’orizzonte appare il continente americano, nel sistema elettronico del velivolo si verifica un guasto inaspettato. L’atmosfera in cabina è rilassata, sugli schermi campeggia un rassicurante planisfero che segna la rotta e fornisce ai passeggeri informazioni su durata, distanza e altitudine dell’aereo. Ad un tratto, gli schermi sfarfallano e il sistema tenta di riavviarsi. Nell’immobilità generale, schermate di reboot e stringhe di codice senza senso si moltiplicano sullo schermo a grande velocità. La superficie patinata di quelle mappe, che mostravano isole e porzioni di costa sul blu screziato degli oceani, viene spazzata via dalla ruvidezza alfanumerica dei codici informatici e dei comandi di sistema. Il codice si svela nudo, e irrompe nella cabina dell’aereo. Alla fine, quel volo arriverà a destinazione senza alcun incidente. Si era trattato di un piccolo guasto al sistema elettronico dei passeggeri, che durò in tutto pochi minuti. Tra di loro c’era Kenneth Goldsmith10, che in quel glitch vede appunto una ferita aperta nella pelle del linguaggio, una fuoriuscita non sanguinosa della scrittura contemporanea dal guscio levigato che la contiene. Tutto d’un tratto è come se il velo dietro cui si nasconde la nostra epoca, fatta soprattutto di immagini e suoni, si strappasse davanti a noi mostrando la sua vera carne, fatta di linguaggio.

12.
A dispetto della nostra comune idea, dovremmo insomma capire sul serio che lo spazio reale nel quale esiste la possibilità della scrittura è molto più ampio. E sembra quasi che dietro tutto questo si nasconda una grande beffa. Perché oggi il linguaggio, e di conseguenza la scrittura, sono la materia spesso impalpabile di cui sono fatte le altre cose – non in senso astratto o simbolico, ma tecnico, tecnologico, potremmo dire appunto “materiale”. TV, film, video, musica, libri, riviste, social network e smartphone, dietro la loro pelle liscia, nascondono chilometri di linguaggio alfanumerico. E invece, a quasi dieci anni dalla prima uscita di Uncreative Writing, ora che la scrittura tecnicamente può davvero tutto, la letteratura sembra ancora chiusa nella sua stanza, di fronte a una pagina bianca, in attesa di ispirazione. Tutto sommato, il blocco dello scrittore è il più piccolo dei problemi.

FINE.

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Valerio Mannucci