Quando si tratta di arte, ogni tentativo di categorizzazione è estremamente delicato. I confini sono fatti per essere oltrepassati, non di rado rifiutati e combattuti con quelle rivoluzioni che secondo i Surrealisti si fanno di notte, in sogno.
Ancora più controverse, d’altra parte, sono le distinzioni di genere. A fronte di un solido affermarsi del cosiddetto “pensiero della differenza” – che, attingendo al post-strutturalismo di Derrida, supportava i movimenti femministi degli anni Settanta con la tesi di una specificità femminile irriducibile a quella maschile –, molte artiste donne detestano invece essere etichettate in base al loro sesso, rifuggendo ogni rischio di segregazione e rivendicando un totale appiattimento della curva di differenza con i colleghi maschi.
Tra queste, Dorothea Tanning dichiarava nel 1990 che il concetto di ‘artista donna’, semplicemente, non esiste. È una contraddizione in termini, esattamente come ‘artista uomo’ o, ad esempio, ‘artista elefante1’. Curioso come, invece, Valerie Solanas utilizzasse questo stesso concetto in chiave di radicalismo femminista, affermando nel suo celebre S.C.U.M. Manifesto che, certamente, l’idea di ‘artista maschio’ è un ossimoro: ma semplicemente perché l’unica forma di arte concepibile viene dal mondo femminile2.
Al di là delle molte facce di una questione culturale complessa, se è vero che una forma di femminismo sano e costruttivo non dovrebbe passare dallo scontro frontale tra due generi, è necessario a volte tracciare dei paradigmi: ricondurre al proprio bacino di provenienza alcune figure che, pur insofferenti a etichette di sorta, devono essere inquadrate nella giusta ottica storica e artistica.
È significativo quindi che alcune autrici riconducibili alla sfera del Surrealismo novecentesco, senza dubbio meno note rispetto ai colleghi uomini, stiano in qualche modo conoscendo una riscoperta nel contesto delle istituzioni e del mercato dell’arte – arrivando così a influenzare il lavoro di artiste più giovani.
Dorothea Tanning (Illinois, 1910 – New York, 2012) in questo senso, è un ottimo esempio. La grande personale che le ha dedicato la Tate Modern di Londra nella primavera del 2019 esponeva un centinaio di opere che includevano dipinti, disegni, sculture. Alison Jacques, la galleria londinese che già dal 2011 tratta il suo lavoro, ha ospitato una personale di opere tarde proprio all’inizio di quest’anno – per concludere con una vewing room online (la forma che hanno assunto le mostre e le fiere d’arte, in tempi di pandemia) che presenta un olio su tela del 1974, Pour Gustave l’adoré, che racchiude molti dei tratti caratterizzanti del lavoro di Tanning. La figura ambigua e mitologica della medusa, ricorrente in altri lavori, alza il velo su un mondo magico, surreale e inconscio sottolineato anche dalla gamma cromatica. I suoi dipinti e disegni, spesso ai limiti dell’astrazione, tratteggiano mondi oscuri in cui compaiono corpi umani tormentati, colori cupi, visioni oniriche.
A condividere con lei le sensibilità proprie del Surrealismo originario (e, per dovere di cronaca, anche la relazione sentimentale con lo stesso uomo, Max Ernst), è stata l’inglese Leonora Carrington (Lancaster, UK, 1917– Città del Messico, 2011). Il suo universo sembra più vicino al mondo animale e naturale, letto con tratti immaginifici e con una vena di ribellione alle convenzioni sociali vigenti, che porta ad aprire la mente a mondi ‘altri’. Tra questi, rientra senz’altro quello dell’infanzia, cui tutto il Surrealismo è stato debitore: alla produzione artistica, Carrington affianca infatti la scrittura di racconti per bambini. La raccolta Il latte dei sogni, che include una serie di fiabe scritte e illustrate per i figli durante il suo periodo messicano, è stato pubblicato in Italia circa un anno fa, tradotto ed edito da Adelphi3.
Pressoché coetanea, è la statunitense Gertrude Abercrombie (Austin, 1909 – Chicago, 1977). Anche nel suo caso, decenni di oblio sono stati parzialmente riscattati con il recupero del suo lavoro da parte della galleria newyorkese Karma, che le ha dedicato una mostra personale nella tarda estate del 2018, dopo la presentazione in istituzioni a Springfield e Chicago. Il Surrealismo di Abercrombie, fedele alla gamma cromatica propria del movimento, è decisamente figurativo, e i suoi mondi sono popolati di conchiglie, pianure desolate, alberi spogli, figure umane sottili e angosciate, edifici inquieti. Se però il nome di Abercrombie circola ancora in ambito quasi solo statunitense, decisamente più nota in ambito surrealista è la tedesca Meret Oppenheim (Berlino,1913 – Basilea, 1985): dopo la presentazione in numerose mostre internazionali, a cavallo tra il 2021 e il 2022 è in programma un’ampia retrospettiva sul suo lavoro che partirà dal Kunstmuseum di Berna, quindi si sposterà negli Stati Uniti – a Huston prima, e al MoMA di New York poi.
Proprio Oppenheim è tra le principali fonti di ispirazione di un’altra artista di una generazione successiva, rimasta nell’ombra fino alla recente riscoperta da parte di alcune istituzioni europee che hanno collaborato a omaggiarla con un progetto espositivo itinerante, ampio ed esaustivo. Si tratta di Birgit Jürgenssen (Vienna, 1949 – 2003), presentata in Italia dalla GAMeC di Bergamo nella primavera del 2019. Anche per lei il vocabolario surrealista diventa la chiave di lettura di un mondo che le va stretto, un modo per dare voce al senso di inadeguatezza di una donna relegata a ruoli impari rispetto a quelli maschili: pur senza esplicite dichiarazioni socio-politiche, risulta chiaro da numerosi suoi lavori profondamente ironici il desiderio di evasione da spazi angusti – culturali e fisici – che relegavano la donna entro le mura domestiche. Le tematiche affrontate, principalmente attraverso il disegno e la fotografia, sono quelle condivise dai predecessori: il corpo femminile, il rapporto con il mondo organico naturale e animale, filtrato attraverso la lente dell’inquietudine inconscia, le questioni di genere appunto.
I tratti propri delle artiste surrealiste, innegabilmente peculiari rispetto ai colleghi, almeno in parte, sono spesso all’insegna di un’implosione: su se stesse, nel proprio inconscio, talvolta in spazi chiusi e domestici che fanno da scenario. Laddove il surrealismo esplodeva verso un automatismo di forme visive e letterarie, le donne risentono di una maggiore vicinanza alla sfera intima e personale, a quella naturale.
Marta Pierobon (Brescia, 1979) fin dall’inizio di un percorso artistico sempre coerente a se stesso sembra raccogliere un lungo filo rosso che, muovendo da questi nomi, passa attraverso la grandezza elegante e l’amore per la materia di Louise Bourgeois – evitando di esplicitare tematiche di genere, ma riconoscendo la specificità della propria eredità femminile. Da sempre, il suo linguaggio include il disegno, il collage, la scultura: pratiche che si mescolano passando continuamente l’una nell’altra per costruire dei mondi, esattamente come faceva il Surrealismo.
Nel corso degli anni, i microcosmi immaginati da Pierobon si sono fatti via via più puntuali, più figurativi, seguendo una parabola fatta di scultura e disegno: il tutto senza distinzioni nette, ma come un continuo intreccio di media imprescindibili l’uno dall’altro, imprescindibili da una comune atmosfera immaginifica. Nessun confine reale e ideale tra bidimensione e tridimensione. Nel corso degli ultimi tre anni, pur mantenendo l’utilizzo libero della materia e del colore, nel suo universo onirico hanno iniziato a focalizzarsi veri e propri personaggi, spesso calati in una contemporaneità più o meno esplicita. Ci sono pesci, donne e bambini acefali, scarpe, sigarette, ostriche, anelli, bicchieri, uccelli, mani, piedi e bocche – stesi sul foglio con tratti rapidi e semplici, pochi colori presi dalla gamma dell’infanzia. Oppure plasmati nella creta, nel bronzo, nella terra cruda, nel cartone, in diverse scale di grandezza. Un mondo che fa dello storytelling e dell’immaginazione i suoi pilastri, cristallizzandosi in veri e propri micro-racconti per immagini attraversati da una costante ironia intelligente. Sono istantanee incentrate, sempre, su piccole realtà quotidiane. In questo senso, Marta Pierobon parla di ‘everydayness’, all’interno di un progetto più ampio che lei stessa definisce “Surrealismo Domestico”: le piccole cose che rientrano ogni giorno nella routine della nostra esistenza hanno potenzialità narrative e creative enormi, attivabili grazie alle risorse inconsce che proprio il Surrealismo aveva iniziato a tradurre in arte. Lo sguardo dell’artista su queste ‘piccolezze’, diventa infatti quello dell’ossessione, della mania, dell’allucinazione: nulla è ‘normale’, se lo si guarda con occhi mentali. Del progetto fanno parte le Sleepless Stories, una serie di disegni iniziati nel 2017, raccolti poi in un libro d’artista che vedrà la luce il prossimo autunno per Boite Editions: Alessandro Pessoli, che introduce la serie con un suo testo, mette in luce perfettamente il ruolo fondamentale dell’immaginazione, della fantasia, dell’anarchia di visione in questa carrellata di piccole meraviglie. La sfera casalinga si spoglia dei significati politici di Birgit Jürgenssen, ma assume tratti allucinatori derivati dalla più immediata quotidianità.
È interessante, del resto, leggere in questi termini l’intimità domestica in un tempo in cui questa ha imparato a essere il nostro unico orizzonte. La casa, in un mondo sconvolto da un’emergenza sanitaria del tutto nuova, si è trasformata per lunghe settimane una prigione, un rifugio, un confine inaccettabile. Una situazione che lascerà segni psicologici, più o meno profondi, in moltissime persone, indipendentemente dalla gravità delle condizioni in cui il lockdown è stato vissuto. E allora diventa possibile immaginare un mondo domestico che schiuda altri mondi nell’inconscio di chi lo abita, un modo per viaggiare con la mente in termini riconducibili alla psichedelica allucinatoria. Se il mio sguardo non può andare oltre una parete, allora un bicchiere può diventare un pesce, un acquario può riempirsi di occhi.
La meraviglia del Surrealismo, in fondo, è stata questa: negli anni in cui la neonata psicanalisi alzava il velo su un mondo sotterraneo e ricchissimo – l’inconscio umano – l’arte la seguiva e traduceva tutto in immagini estemporanee, ironiche e terribili. Le donne, forse, hanno saputo aggiungere un’implosione di intimità a cui guardare con attenzione e gratitudine.