“A Volte Penso Che…” Prometeo Gallery / Lucca di

di 9 Settembre 2020

Nel presentare per la prima volta in Italia i lavori di Santiago Serra e Regina José Galindo, Prometeo Gallery ha affermato il suo posizionamento quale galleria promotrice di arte politica e sociale. Questo ruolo non diminuisce di spessore nemmeno con l’ultima mostra intitolata “A Volte Penso Che…”. La collettiva presenta le opere di ventitré artisti fra i più noti in termini d’impegno politico e sociale che si muovono al di fuori delle traiettorie deputate del sistema dell’arte con effetti tangibili sulle realtà trattate. Quando un’opera viene attivata, o prova a inserirsi in certe dinamiche sociali può provocare dei mutamenti – il residuo di un’opera, da una fotografia iconica a un poster di protesta, può istigare possibili cambiamenti politici, lo stesso vale per i meme e le parole. Nella teoria del caos c’è un fenomeno definito effetto farfalla, per cui la variazione minima all’interno di un sistema deterministico non lineare può causare grandi differenze nelle fasi successive. Se l’arte funziona come tutte le altre cose, allora anche il battito d’ali di una farfalla a migliaia di kilometri di distanza, può scaturire una tempesta.

Per esempio, in Memories of Things Present #2 (2020) Julieta Aranda, artista e editor di e-flux, utilizza oggetti giorni quotidiani – come calici di vino, cotone, terra, fagioli, giornali e del nastro adesivo blu – per testimoniare la creazione e la manipolazione di scambi artistici e la sovversione delle nozioni tradizionali del mercato. Composta da una serie di calici di vino riempiti con dei giornali accartocciati, che svettano su un plinto bianco con accanto un volantino il cui titolo stampato a grandi lettere recita la parola “memory”, l’opera può essere letta come un’analisi delle modalità con cui socializziamo e ci scambiamo informazioni, ma anche sotto la lente del peso che i media e la nostra educazione hanno su queste. La pratica artistica di Aranda, di fatto, indaga ciò che lei definisce “poetics of circulation” e poggia su uno scambio costante con altre discipline fino a toccare l’educazione e l’attivismo.

Più puntuale se vogliamo, una stampa di Marinella Senatore (Can one lead a good life in a bad life?, 2019) che riporta la frase “stay woke”, ci invita a restare vigili – il termine woke si configura qui come chiaro riferimento a chi si batte per ragioni di giustizia sociale. La partecipazione è un tema centrale di gran parte della produzione di Senatore, spesso rivolta all’inclusione e all’attivazione dello spettatore, sempre invitato a prendere coscienza della realizzazione stessa dell’opera. Sei woke? Deliberatamente non-woke? Post-woke? Chiedere di essere vigile può sembrare un’ovvietà, ma ha generato una risposta, sottolineando ancora una volta l’importanza della pratica relazionale e le conseguenze della multidisciplinarietà della sua ricerca. Quando i progetti di Senatore si svolgono a stretto contatto con le comunità locali, come in The School of Narrative Dance (2015) in cui il tropo della danza urbana diventa un metodo per costruire e favorire lo sviluppo di forme artistiche comunitarie, la partecipazione assume un ruolo chiave.

DEMOCRACIA – un collettivo nato nel 2006 dalle ceneri di una precedente esperienza di attivismo artistico di gruppo, di nome El Perro (collettivo spagnolo formatosi negli anni Novanta) – lavora in maniera analoga e utilizza l’intervento sullo spazio urbano come strumento per creare un pubblico che è in grado di istituire un dibattito su temi sociali e politici particolarmente urgenti. Una delle foto presenti in mostra, in cui una donna nera guarda dritto verso lo spettatore mentre tiene in mano un cartello con scritto “government is death”, testimonia in modo effimero il loro interesse per gli interventi urbani e per l’estetica delle proteste.

Più di ogni cosa la mostra evidenzia come le forme presenti e passate di attivismo artistico si manifestano attraverso approcci nuovi e inaspettati. Che sia attraverso l’editoria, o l’attivismo e l’educazione, l’esposizione ci offre una testimonianza di come l’arte possa e, per certi versi, debba, superare i propri formati prestabiliti e le consuete narrative.

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Dorian Batycka