Sono uno scriba parlante. Francesco Cavaliere di

di 11 Settembre 2020
Francesco Cavaliere, sul ciglio che cade e spira. Pieve, 2020. Fotografia di Yuyan Wang. Courtesy l’artista.

Vittoria de Franchis: Aldo Palazzeschi in una sua bellissima poesia – Chi sono? – si chiede: “son forse un poeta? un pittore? un musico? che cosa? Il saltimbanco dell’anima mia”. E tu chi sei?
Francesco Cavaliere: È una bella domanda, il dilemma della mia vita. La molteplicità delle cose che faccio a volte mi disarma. Talvolta quando fai tante cose diverse è difficile dare credibilità al proprio lavoro. E allora anche io cerco di capirlo, di concentrarmi, di focalizzarmi. Mi dico: “racconti delle storie, non andare oltre” ma ci sono tutta un’altra serie di istinti che non posso arginare – osservare gli oggetti, collezionarli, cercare di plasmarli, fare musica. Sto leggendo Il mondo delle formiche di Rémy Chauvin con un’introduzione di Giorgio Celli, entomologo ma anche politico e scrittore. Mentre un tempo esistevano figure come il poeta, il pittore, il musico, penso che oggi ci sia più multidisciplinarietà nelle identità.
Ti direi che… sono uno scriba parlante… la mia voce è una nuvola, la mia penna sibila.

VdF:  E invece qual è la preistoria delle tue storie, del tuo pensiero creativo?
FC: La preistoria è il bambino. Tutti i bambini hanno insita la fantasticheria, si tratta di non perdere questa attitudine. Sai quando un bambino ricrea i suoni di un’avventura nella propria testa e ha in mano una corteccia, e questa è una navicella o un millepiedi, e inizia a fare il suono di quella cosa portandola in giro mentre i genitori gli dicono: “Dai, vieni qua.” Ecco, quella cosa mi succede sempre, ancora adesso! Mi sento come un bambino affascinato da tutto ciò che lo circonda.
Gancio Cielo all’inizio era un flusso di coscienza, prima che diventasse un disco realizzato con l’etichetta Hundebiss. Adesso cerco di controllare almeno un po’ questo flusso, anche perché c’è una grande differenza tra le storie che vengono raccontate a voce alta, in cui hai molta libertà, e quelle che si scrivono. Nel momento in cui c’è stato il salto, iniziare a scrivere un libro, ecco che il lato più adulto ha fatto capolino. La preistoria è quindi il bambino e il suo sogno in cui si aprono possibilità di un’altra temporalità, una temporalità verticale.

Francesco Cavaliere and Spencer Clark, Etrusca 3D, 2020. Lp front cover. Courtesy gli artisti.

VdF: È molto interessante il rapporto tra la tradizione orale e quella scritta, soprattutto se le mettiamo in relazione con attività psichiche come quella della memoria, con la storia. Etrusca 3D è il tuo ultimissimo progetto, una band con Spencer Clark, il cui primo album omonimo è in uscita a settembre. Il fatto che gran parte della tradizione religiosa etrusca fosse orale, ha permesso alla storia di questo popolo di non essere cristallizzata, di continuare a evolversi. Etrusca 3D è quindi una delle forme metamorfiche della civiltà contemporanea degli Etruschi, e di quella futura.
FC: I fatti raccontati oralmente sono realtà che si costruiscono e si disfano continuamente. Anche se un racconto è registrato, tutte le volte che lo ri-ascolti cambia. La forza di Etrusca 3D risiede nel fatto che gli Etruschi fanno ancora parte della contemporaneità ­–in Toscana esiste un canale regionale chiamato Etrusca TV –, la loro è una civiltà in costante riscoperta. Non essendo stata completamente storicizzata continua a insinuarsi nell’immaginario collettivo. Spencer si è appassionato agli Etruschi durante sue visite in Toscana da me. Osservando alcuni hotel dalle strutture futuristiche immersi nella macchia mediterranea abbiamo pensato alla proiezione di una civiltà antica nella contemporaneità e nel futuro.

VdF: Questo desiderio di dare voce a delle lacune, ai vuoti storici è un elemento che spesso torna. Per esempio nel tuo lavoro con Leonardo Pivi, Anubis vs Baboom, presentato a Gluck50, Milano nel 2019 e ispirato al mitico Mosaico di Anubi. In che modo avete generato una nuova memoria di questo mosaico incompleto?
FC: La collaborazione con Leonardo Pivi è iniziata con un scambio di mail riguardo misteriosi mosaici, molto deteriorati. Il nostro gioco era quello di raccontare storie sugli elementi indecifrabili di questi reperti e dalle narrazioni di queste assenze abbiamo dato vita a piccoli mosaici da lettura. Lungo il corso delle nostre ricerche è apparso il Mosaico di Anubi conservato al Museo di Rimini, inizialmente abbiamo studiato i riferimenti bibliografici e le varie interpretazioni delle figure visibili, tra cui un uomo-pastore dal viso canino dai più attribuito ad Anubi. Lo studioso Piero Meldini infatti, sostiene che la figura sia in realtà a metà tra un uomo e un babbuino (da lì “Baboom”). Dopo lunghe trattative siamo riusciti a esporlo da Gluck50, a Milano. La creazione di un cartone – un disegno che viene fatto del mosaico per farne una copia – era una delle nostre priorità. La nostra riproduzione presenta però dei nuovi elementi, delle metamorfosi che nascono sia dalla mia storia che delle lacune studiate insieme a Leonardo.
Così è nato Il Cavaliere Leonardo, il narratore. Un personaggio fatto di terracotta, tegole e vasi. La cosa bella di questa armatura è al suo interno: un mondo di archibugi messi a punto per permettermi di stare in piedi, respirare bene, non sentire il peso di questa corazza mentre da dentro, ricordavo e narravo. Avevo nascosto dei biglietti nell’elmo. Riuscivo a bere attraverso una cannuccia collegata a una bottiglia d’acqua nascosta. Un bastone da montagna attaccato alla mia cintura mi manteneva in equilibrio e sopportava tutto il peso.

VdF: Parliamo quindi della metamorfosi, di queste trasformazioni che avvengono attraverso la narrazione e durante la narrazione: le orecchie diventano conchiglie che riconoscono ogni menzogna, la pelle si ricopre di fiammate violacee, entri in un armatura. Come agiscono queste mutazioni, sono delle maschere?
FC: Sicuramente sono la voglia di diventare altro, i travestimenti ti permettono di trasformare te stesso sia internamente che agli occhi di chi osserva. Il colore, gli oggetti sul mio corpo, mi aiutano in questo trasferimento in qualcos’altro, cosa che avviene anche con la parola. Sono dei tentativi di toccare con mano alcuni aspetti dei personaggi che racconto (fisici, psicologici), cercare di avvicinarmi per diventare come loro.

VdF: A proposito di oggetti, ne sei spesso circondato. Mi viene in mente la serie di oggetti verdi usati in Green Music, il tuo progetto con Tomoko Sauvage, di cui uscirà il disco Viridescens per Marionette. Cosa rappresentano questi oggetti per te?
FC: Questi oggetti, come i travestimenti, sono un desiderio feticista di completare delle mie curiosità, li scovo nelle dune dei mercatini. Ci sono però degli oggetti che vorrei avere che non esistono e che voglio creare. Come Don Chisciotte, spesso mi scontro con cose che non funzionano, che si spaccano. Mi interesso a materiali molto strani – riflettenti, trasparenti oppure concavi, convessi – difficili da reperire e questa ricerca è abbastanza ossessiva. Devo confessarti che sono arrivato alla scrittura per via di una grossa frustrazione dal punto di vista visivo. Ho sempre scritto, ma ho iniziato a farlo molto di più nel momento in cui sentivo di non riuscire nelle mie imprese plastiche. Colleziono per creare delle scatole, dei forzieri pieni di serie inconsuete, quasi aliene, ad esempio Green Music sono collezioni di oggetti verdi – ho uno di questi forzieri in studio a Berlino pieno di cose verdi collezionate in tutti i viaggi fatti con Tomoko. Queste scatole sono come delle porte: immagina cosa succede quando le riapri. Creazioni momentanee che riscopro successivamente, il sogno è lo stesso. Una sorta di rielaborazione del futuro anteriore, citando Wittgenstein.

Francesco Cavaliere e Tomoko Sauvage, Green Music, 2017. Veduta della performance. Courtesy gli artisti.

VdF: I tuoi lavori mi fanno pensare al Codex Seraphinianus, libro leggendario di Luigi Serafini, che descrive attraverso un linguaggio inventato ma incredibilmente comprensibile delle figure fantastiche, una realtà trasognante che non sembra poi così diversa da quella in cui viviamo. La fantasia ha un ruolo fondamentale, soprattutto oggi, in quanto trasformatore delle turbolenze del contemporaneo.
FC: La cosa più necessaria al di là della fantasia in sé, è il pensiero astratto che può essere veramente diversificato. C’è chi lo manifesta attraverso storie fantastiche, chi attraverso la matematica. Ultimamente sono molto affascinato da Paul Dirac, autore importante per la meccanica quantistica, contemporaneo di Einstein. Veniva descritto come uno studioso estremamente silenzioso, con dei momenti di introspettività disarmanti. Riusciva ad analizzare e vedere la realtà e i suoi funzionamenti in modo così profondo, astraendosi da essa. In questo, il mondo fantastico e il mondo scientifico si toccano. È importante entrare dentro se stessi, pensare, dare vita all’immaginazione. C’è bisogno di fermarsi. Penso sia fondamentale dare spazio al pensiero, al silenzio, entrare in certe scatole ancora chiuse.

VdF: Quell’effetto trasformatore dei travestimenti di cui parlavi è anche nello spazio. Se tu fai una passeggiata in campagna e quei due alberi diventano una porta, quando la attraversi ti sei trasformato. Lo spazio ti trasforma. Gli oggetti ti trasformano.
FC: Si, con gli oggetti si altera lo spazio, lo si trasforma in un luogo della narrazione in cui entri e cominci a cambiare, a esplorare. Per esempio, le mie installazioni al Grimmuseum del 2011-2013 sono fortemente materiche. In “Lancio Meta Meteo”, una mostra meteorologica, ci sono degli spazi di sabbie profumate, quarzi bianchi, ponti fatti di carta. Quando lo attraversi cambi, anche solo perché ti devi abbassare. Questo adattarsi al paesaggio è una ricerca che ho provato a portare nello spazio espositivo. Le piante creano degli archi, come dici tu. In questo momento mi trovo in Toscana e vado spesso in una pineta, noto che le piante si toccano continuamente! Io penso che la comunicazione tra le piante di cui parla Stefano Mancuso, esista veramente. Anche se sembrano fisse, c’è tutto un movimento tra di loro, di pulviscoli, di inseminazioni, di migrazioni. Il paesaggio non è un accessorio “che ti fa star bene perché sei nella natura ed è verde”. Il paesaggio è pieno di cose invisibili, non è mai fermo, invece l’essere umano è così visibile. Ti rendi conto anche di come noi cerchiamo di fermare il nostro pensiero e distinguerlo da molteplicità infinite. Ci sentiamo addirittura forzati a creare spazi unici in cui beneficiare di pratiche storiche dell’essere umano. Immaginati quanto stiamo forzando la natura al nostro modo di vivere.

VdF: È anche vero che queste contraddizioni sono esse stesse linfa per una maggiore introspezione, dei catalizzatori di osservazione, astrazione. L’opposto ci permette di entrare ancora più nel profondo di tutte quelle cose che sembrano distanti.
FC: O analizzi tutto, o ti apri allo sconosciuto, al non visibile, che non è neanche ciò che si vede al microscopio, non è misurabile. Il fatto che la scienza misuri tutto è un pensiero molto quadrato. Un conto è osservare la natura, esserne affascinati e quindi notare delle cose, un conto è misurarle analiticamente. Questo accade anche nella scrittura, quando bisogna seguire dei modelli forzati che non contemplano l’immaginazione. Noi siamo completamente dentro ad un pensiero misurato che probabilmente deriva da Galileo ed Helmholtz.

VdF: Come dicevi anche nella scrittura, nel linguaggio vi sono dei quadrati, dei piani Cartesiani che influenzano il nostro sentire. Invece nel tuo linguaggio pieno di onomatopee, di parole inventate, di lettere che si abbracciano, la mente perde quella velleità di associazione immediata con una nozione. E se la parola in questo momento trema perché l’immagine ha preso piede in maniera quasi totalizzante, dall’altra acquisisce un valore monolitico. Queste parole si mescolano alle immagini, tornano i geroglifici. Ma quante parole scompaiono? Dovremmo forse costruire dei forzieri di parole dimenticate.
FC: E anche di parole inesistenti! Perché bisogna per forza spiegare tutto? Sto leggendo un libro di Anne Dufourmantelle, che dice che i sogni sono le prime tracce scritte di racconti personali. “Il sogno pare che preceda il romanzo, ciò che collega il reale e l’interiorità.” Dufourmantelle fa poi un collegamento tra il sogno e la confessione, i sogni come confessioni. Oggi ti direi che le confessioni sono sostituite dalle verticali spregiudicate delle chat!
È anche vero che nel linguaggio contemporaneo ci sono dei fenomeni molto interessanti, come quello del linguaggio telematico, delle abbreviazioni, il quasi geroglifico, misto tra parola e immagine. C’è però la mancanza di approfondire quel linguaggio, perché è veramente velocissimo e può essere cancellato subito, addirittura le cose che scrivi scompaiono nell’immediato. Pensa al “T9,” o suggerimento automatico, che a volte non riesci a controllare perché magari scrivi in una lingua ma quella impostata è diversa. I linguaggi iniziano a mischiarsi e possono creare nuove parole, punti di domanda, sospensioni linguistiche. Spesso, le parole che invento derivano da delle difficoltà di traduzione, di decodificazione dei linguaggi che sto provando a imparare. Indubbiamente gli esseri umani stanno scrivendo molto più di prima, sono perennemente in chat, si creeranno cinquantamila modi di dire la stessa cosa. È molto affascinante, può esplodere in qualcosa di molto bello.

VdF: Entriamo nel mare di sale, lì si trova una corazza potentissima che racchiude una polpa morbida e luccicante. “Sea Urchin” è il tuo progetto con Leila Hassan, “un’esplorazione di forme come ponte tra universi”.
FC: Sea Urchin è proprio un ponte tra il fondale marino e il fondale celeste. Un tentativo di ricongiungimento tra luce e suono. Inizialmente il lavoro di Leila era più scultoreo che sonoro, lavorava con luci espanse, oggetti su cui lei proiettava. Negli anni si è trasformato, in Sea Urchin è lei la voce. Entrambi usiamo la parola per raccontare o per sostenere dei mondi musicali, che ci ha portato a lavorare insieme.
Nel progetto inoltre è molto forte la componente della traduzione. Leila ha questa duplice radice: europea-austriaca e nordafricana-egiziana, perciò tenta di riscoprire suoni di lingue che ha imparato da bambina. Tutta la parte araba che c’è in Sea Urchin è costituita da traduzioni strampalate di ricordi d’infanzia, oppure di alcune parole molto semplici che traducono forme poetiche più complicate. Nel momento in cui cerchiamo di fare delle cose ritmiche e allo stesso tempo vuote, subentrano singole parole che possono esprimere diversi concetti, colori. Quello di cui parlavi prima, la parola monolitica, anche una singola frase, parola proiettata fuori da te, rimane quasi come una forma scultorea. Leila proietta come luci queste parole uniche.

VdF: Uno dei progetti al quale hai lavorato negli ultimi anni è quello del “Coro delle Intemperie / The Weather Imitators”, un’antropologia di suoni del tempo meteorologico, uno spartito di memorie di temporali. Chi sono esattamente gli imitatori del tempo?
FC: Gli imitatori del tempo sono delle persone tra i sessanta e gli ottanta anni. Fondamentalmente è un coro di cantanti amatori. Il nostro tentativo è quello di creare una mappatura meteorologica, del tempo specifico di alcune zone del mondo. Per esempio, a Bruxelles ho lavorato con un quartetto di signore e signori su una serie di indicazioni grafiche e gestuali che si sono trasformate in partiture, una sorta di codice morse di un linguaggio meteorologico. È un progetto abbastanza particolare legato al discorso dell’età. Mi ricordo che quando l’ho proposto alla Biennale di Riga, la curatrice era sbalordita dalla mia volontà di lavorare con persone così adulte, piuttosto che chiedere a un bambino di immaginare un tuono. Non si tratta di fare il verso al tuono, ma di capire in quale punto nella nostra memoria si trova quel determinato suono, in questo caso un tuono, quel tuono proveniente da uno specifico luogo.

VdF: Mi hai fatto venire in mente l’esordio di DNA Clepsydra
FC: L’ultima parte della serie di Gancio Cielo invece di svilupparsi in ambito sonoro – com’è avvenuto per i primi due capitoli usciti su Hundebiss – è una storia cartacea, appunto il romanzo DNA Clepsydra. Il duo Idioletta (Mattia Capelletti e Costanza Candeloro) mi ha spinto a espandere un racconto del 2017 su una popolazione che invece di camminare in modo rettilineo aveva iniziato a camminare in modo laterale, un passo incrociato, un passo “DNA.”
I ragazzi protagonisti del primo e ultimo capitolo si allenano in questo gioco antico che combina entrambi i passi. Il libro è scritto in prima persona, il lettore si identifica con il narratore seguendo una guida che descrive il mondo di Gancio Cielo. A dire il vero sono entrato anche io a far parte di questo gioco antico. Quando leggi diventi Alcan, che si allena con un suo amico in coreografie celesti che fanno entrare in contatto con delle forze altre, sconosciute. Il “passo DNA,” è poi diventato DNA Clepsydra. Mi piaceva il fatto che la clessidra invece di essere il classico simbolo del tempo, diventasse un simbolo di trasformazione.
In questa pubblicazione ci sono anche una trentina di immagini create da Viola Leddi, a matita e digitalmente – parte tradotte da alcuni miei schizzi, altre invece completamente sue. L’idea era quella di ricalcare il libro gioco, quello che ti parla, che ti dice cosa fare.

VdF: Invece, Zoo Machia Disc (2019) è la prima di una serie di audio stories, “Sussurra Luce”, per Fantom Dischi, che vedranno la partecipazione di altri autori. Zoo Machia Disc è un racconto di animali dove gli esseri umani non esistono, e ha come protagonisti un formica-scriba, un ragno-suggeritore, una cavalletta/grillo-profeta e delle api dell’alveare “COOAX YESAT”.
FC: Zoo Machia Disc è una favola – mi diceva un mio amico che sembra una versione “2.0” di Esopo – nella quale cerco il più possibile di non ritrarre gli animali dal punto di vista umano. Chiaramente non sempre riesco, perché alla fine uso un linguaggio umano. Sto leggendo un saggio di Akira Mizuta Lippit, Magnetic Animal: Derrida, Wildlife, And Metaphorin cui vengono menzionate delle conferenze di Derrida sul sogno negli animali. Mi ricordo che quando ero bambino, capitava che mia nonna mi dicesse “Il cane sta sognando”. Effettivamente vedevo il cane muoversi ed emettere suoni; chiaramente l’interpretazione umana ci porta a pensare che il cane stia correndo in un prato, ha incontrato un altro cane, stanno giocando.
Sono state molteplici le interpretazioni, vedi Freud che sosteneva che il sogno degli animali si avvicinasse al nostro inconscio, in quanto riflesso dell’istinto umano. In Zoo Machia Disc cerco di distaccarmi il più possibile dall’interpretazione umana. Malgrado la cospicua bibliografia sul comportamento degli animali, i loro sogni, c’è un vuoto, un non-passaggio, perché non possiamo sapere né raccontarlo. Volevo entrare dentro a questo vuoto e provare a sentire il comportamento di un insetto nella sua quotidianità, nei suoi movimenti, nei suoi rituali.

Francesco Cavaliere, bozzetti di logo per Sussurra luce, 2020. Elaborazione grafica di Didier Falzone/Fantom. Courtesy gli artisti.

VdF: C’è questo simpatico libro di Konrad Lorenz, “L’anello del re Salomone” in cui lui per capire il comportamento delle oche selvatiche trascorre un’estate in qualità di “oca tra le oche”, immedesimandosi in una di loro. Si rende però velocemente conto che le oche selvatiche passano sette ottavi delle loro giornate a dormire e digerire e così lui per sette ottavi delle sue giornate estive riposa insieme alle oche. Anche il tempo degli animali è totalmente diverso dal nostro, è difficile distaccarsi dalla nostra percezione super-umana.
FC: Esatto. Quello su di cui mi sono concentrato in Zoo Machia Disc sono le superfici. Pensare alla formazione atomica delle cose, di una foglia, di una pietra, il terreno e le sue componenti, le sue stratificazioni, il calore di una zona calda, il fresco di una zona ombrosa. Il pensiero umano è sempre lì che aleggia, però possiamo dare valore a delle cose che probabilmente non osserviamo normalmente o dalle quali siamo lontani. Il nostro guardare avviene sempre in questo “Piano Americano,” spesso vediamo solo le spalle, il viso. Già cambiare punto di vista mi sembrava qualcosa di positivo. Questo mio intento si traduce quindi in una favola, un linguaggio classico con degli elementi più inaspettati.

VdF: Incamminandoci verso l’uscita del padiglione di sale e alabastro in cui si è svolta quest’intervista, si trovano tre sfingi. Quella più lontana, proprio vicino alla porta, ti invita a sederti sulla zampa di rame e ti chiede: “Che regalo vorresti da portar loro?”
FC: Vorrei portare una bacchetta di cenerino, perciò di alabastro grigio, molto fine, che parte rettangolare e poi piano piano si arrotonda e diventa un cerchio. Agli estremi della bacchetta ci sono tantissime diramazioni di calcari e vetro che finiscono con delle piccole mani con artigli. Una bacchetta piena di mani e artigli che possono usare quando sono veramente molto stanchi per grattarsi la schiena.

Altri articoli di

Vittoria de Franchis