Mi capita, in questo periodo di pandemia, di ripensare ad alcune cose che fino all’anno scorso facevano parte della nostra vita a tal punto da darle per scontate. Tra queste, in particolare, mi vengono in mente quei momenti di condivisione che costellavano le nostre settimane. Adesso, quando ci penso, spesso mi sembrano ricordi dai contorni sfumati e mentre scrivo, alla vigilia di un secondo lockdown nel giro di pochi mesi, quasi frutto della mia immaginazione.
All’interno dell’installazione di Latifa Echakhch in mostra da kaufmann repetto, ho la sensazione che questi pensieri non siano soltanto i miei. Mi aggiro negli spazi della galleria trasformati in una sorta di scenografia teatrale, un paesaggio sospeso tra l’onirico e l’apocalittico. Pareti e pavimenti completamente neri ospitano quelli che sembrano i resti di un concerto o di un festival da poco concluso: strutture in alluminio, tipiche dei ponteggi con cui si costruiscono i palchi, sono sparse in alcuni angoli della stanza, qua e là alcuni oggetti abbandonati, che qualcuno si è lasciato dietro dopo la serata (una borsa, un maglione, un vestitino color argento). Alle pareti, invece, i frammenti di alcuni affreschi danneggiati (Sun Set Down, 2020), lasciano intravedere a sprazzi il disegno originario di un paesaggio immerso nella natura e le tonalità vivide di un’alba. Cos’è successo? Siamo arrivati troppo tardi? Il concerto è finito e stanno già smontando? Dove sono tutti?
Il titolo della mostra, “The After”, allude a qualcosa accaduto in nostra assenza, che il visitatore può limitarsi a immaginare e rivela l’attitudine di Echakhch a giocare col significato simbolico degli oggetti, sfruttando, com’è sua consuetudine, il meccanismo della decontestualizzazione e il suo potere evocativo. Gli oggetti scelti divengono così elementi strumentali alla rievocazione, le tracce di qualcosa di imponente, che cogliamo troppo tardi, quando, ormai ridotto allo stato di rovina, ci si presenta in tutta la sua fragilità. Lo scenario immaginato da Echakhch è in grado di evocare una dimensione soggettiva e personale, ma allo stesso tempo ne rimarca la valenza universale. I resti a terra in “The After” sembrano infatti alludere alla fine di un’epoca, mentre i colori pastello dell’alba che si intravede sulle pareti, alla possibilità di una rinascita. I simboli scelti dall’artista sono in grado di parlare ai ricordi di una collettività.
Se fino a poco tempo fa il “the after” del titolo avrebbe suggerito una dimensione euforica di fine concerto, un after party che prosegue dopo la fine della performance, oggi, nel corso dell’emergenza che tutti stiamo vivendo, i frammenti messi in scena ci parlano di una storia più complessa che si presta a letture in antitesi tra loro, in cui distruzione e rinascita sembrano facce della stessa medaglia. “The After” è sì una mostra, ma si articola come un racconto. Un racconto composto di frammenti materiali e quindi tangibili, ma anche di gesti che non si vedono, di assenza e di decostruzione. Con il suo sguardo poetico Echakhch invita lo spettatore a immergersi in uno spazio in cui aleggiano sensazioni opposte: la speranza davanti ai colori dell’alba, metafora di un nuovo inizio, e il sentimento di perdita che deriva dalla distruzione di un’immagine.
Quello che ci si presenta inizialmente come il tentativo di cancellare un ricordo, allude allo stesso tempo a un nuovo capitolo della storia, in cui siamo noi spettatori a poter ricostruire, con uno sforzo d’immaginazione collettiva, il prima e il dopo.