The Future of the Museum. 28 Dialogues, edito da Hatje Cantz e fresco di pubblicazione, è un libro illuminante. Il suo autore, András Szántó, raccoglie al suo interno ventotto dialoghi con direttori di museo di differenti provenienze, background, scelte, concezioni. E lo fa oggi, nel bel mezzo di una pandemia e della conseguente crisi globale di pensiero che ne sta derivando.
Apparentemente questo volume sembra voler mettere in ordine e classificare delle esperienze, cercando di non limitarsi solamente alla visione occidentale del museo ma allargandosi alle più svariate declinazioni dell’istituzione museale. Tuttavia il risultato è qualcosa di nettamente diverso, apre un dibattito e lo fa nella piena consapevolezza che “è difficile dare dei giudizi in mezzo ad una crisi” e che “è ok essere confusi”ma che è fondamentale poter guardare avanti e oltre.
Daniela Zangrando: Buongiorno András, lasciami iniziare da una considerazione che potrebbe funzionare bene a conclusione di un’intervista, ma che sento come imprescindibile. Il tuo libro è pieno di speranza. E voglio dirlo subito. Pullula di vita, di ossigeno. Non nasconde la durezza e l’incertezza dei tempi che stiamo vivendo. Non ignora il fatto, tra le altre cose, che i governi durante questa lunga pandemia abbiano espresso un verdetto chiaro, condannando i musei come istituzioni non essenziali. Eppure, quello che emerge dai dialoghi che popolano queste pagine, non è un piagnucolio diffuso, né una sensazione di resa, anzi. Le voci che hai raccolto non fanno che confermare che il Museo c’è ed è vivo e vegeto. Che bisogna rimboccarsi le maniche e “capire che per affermare la vitalità, la credibilità e la sostenibilità finanziaria del museo serviranno riforme e volontà nel trovare nuove idee”. L’ho letto in chiave troppo entusiasta?
András Szántó: Sono felice che sia passata questa nota di ottimismo. È l’ottimismo dell’azione, di una volontà di provare cose nuove. Nessuno vuole essere ingenuo riguardo alle difficoltà che le istituzioni si trovano ad affrontare in questo momento. Ma come te, sono rimasto piacevolmente sorpreso dall’energia e dal dinamismo dei leader museali nel libro e, cosa più importante, dalla freschezza delle loro idee.
Lungi dall’essere un territorio esclusivo e polveroso, i musei crescono ed evolvono continuamente. In molti casi si tratta di istituzioni veramente progressiste che si considerano al centro delle loro comunità e società. L’attuale generazione di leader museali opera per elaborare un’idea fresca di cosa può essere un museo. La pandemia ha funto da acceleratore a questi impulsi. Tuttavia gli impulsi in sé per sé non sono nuovi. Erano presenti in questo settore anche prima del Covid-19.
Conduco conversazioni con direttori di musei già da molti anni e proprio da questi dialoghi ho capito chiaramente che il museo tradizionale stava evolvendo in qualcosa di più complesso, più impegnato, più democratico, più aperto. Le aree funzionali che erano state ritenute in qualche modo secondarie – penso ad esempio alle aree dedicate alla formazione negli interrati, ai reparti digitali trattati come “IT”, al coinvolgimento del pubblico e al marketing associato, che erano visti come meccanismi di mero supporto, per non parlare delle aree della pratica curatoriale che si confrontano con varie comunità, regioni del mondo, idee… tutte queste dimensioni del museo erano in continuo movimento verso il cuore dell’impresa. La pandemia, qui e altrove, ha promosso le istituzioni a fulcro di questo agire. Quel senso di movimento – chiamiamola opportunità – è percepibile in tutto il libro.
Ma non bisogna lasciarsi ingannare. Queste conversazioni sono avvenute in un momento molto difficile per questi direttori, per il loro personale e le istituzioni cui fanno riferimento.
DZ: Raccontami un po’ di più della genesi di questo libro. So che avevi in mente da tempo di raccogliere delle interviste ai direttori di museo e che il lockdown della primavera 2020 ti ha dato il tempo, e il gancio, per deciderti a farlo. Ma qual è stato il pensiero che l’ha reso urgente? Quale la molla che ne ha fatto scattare la necessità?
AS: Ciò che ha fatto scattare la necessità è stata la risposta travolgente ricevuta a seguito di un articolo che ho scritto durante il primo lockdown della pandemia (Artnet). In quell’articolo sostenevo l’importanza dei musei per le comunità e le società e per gli individui che erano alla ricerca di sollievo e conforto e di una certa identificazione con la vita a loro familiare. Ho proposto alcune modalità in cui potevano avvenire le riaperture dei musei. La tempistica era giusta e l’articolo ha toccato un tasto dolente. Si sono fatti sentire con me molti direttori di museo in quel periodo. Tutti volevano parlare. Tutti si chiedevano: e adesso?
Nel frattempo, con Lena Kiessler di Hatje Cantz, la casa editrice tedesca, da qualche anno parlavamo di fare un libro di conversazioni con direttori di museo. E recentemente la casa editrice aveva avviato una piccola collana di libri sui musei, di cui uno includeva già interviste ai luminari del settore museale. Questo ci ha permesso di proiettare il libro nel futuro. L’opportunità era sfidare i leader museali a pensare quel futuro e, allo stesso tempo, scegliere direttori e istituzioni museali che avessero molto da dire a proposito – proprio perché sono dove sono e sono quelli che sono. La situazione stimolava un dialogo di confronto con il futuro e il libro precedente in quella collana mi ha permesso di operare scelte diverse da quelle che avrei fatto altrimenti. Detto questo, è stato incredibilmente difficile non inserire in questo libro la voce di alcune figure influenti, alcune delle quali sono amici. Sarebbe stato facilissimo riempire un secondo volume.
In ultima istanza, ciò che ha determinato l’urgenza di questo libro è il fatto che stavamo attraversando un momento in cui venivano messi alla prova gli intenti, le potenzialità e le limitazioni di tutte le istituzioni, non soltanto dei musei. E poi c’era un fattore pratico: mai in futuro tanti direttori avrebbero avuto tempo per parlare. Nessuno di loro era in viaggio. Erano seduti a casa. Non riesco a immaginare di poter effettuare 28 interviste in tre o quattro mesi quando ripartirà tutta la giostra. È stato un po’ come quelle immagini di Londra, New York, Roma e Tokyo completamente vuote. Una vista terrificante, certo, ma per un fotografo, il momento di cogliere un’opportunità.
DZ: Devo confessarti che leggere i dialoghi tra te e i direttori dei musei è come prendere una sbornia. Parole, concetti chiave, sogni, esempi, si susseguono in modo così incalzante che dopo un po’ cominciano a vorticare in testa e non riesci più a smettere di pensarci. Ubriacano, letteralmente. Quello che rimane, dopo aver smaltito la sbornia, è un arcipelago – rubo qui volutamente termine e concetto ad Hans Urich Obrist e a Édouard Glissant– di visioni che tracciano una mappa di musei che vanno dall’Australia al Marocco, da New York all’Argentina, dalla Repubblica del Benin a Londra. Ci sono delle questioni che accomunano realtà così diverse tra di loro? Ne puoi spoilerare qualcuna?
AS: Penso che sia la prima volta che ciò che scrivo sortisce questo effetto. Spero che ci sia una potenza in questi dialoghi e nelle idee che contengono, spero che abbiano il potere di scatenare nuovi pensieri e nuove energie — in modo positivo. Mi chiedi se c’è qualcosa che accomuna realtà così diverse. Io credo ci siano parecchie cose. Forse il filo conduttore più importante è quello generazionale. Ne parlo nell’introduzione. Le persone di questo libro sono nate in un intervallo di circa 20-30 anni. Molti di loro hanno sui 40-50 anni. Io appartengo a questa generazione, è il mio gruppo dei pari. E una cosa che mette in relazione persone diverse è proprio la loro coorte, che crea una base comune di riferimenti, eventi, libri, circostanze condivisi, indipendentemente da dove si provenga.
Per esempio, un numero notevole di direttori nel libro cita il Centre Pompidou di Parigi come il proprio termine di paragone per il museo del futuro. Non mi meraviglia. Ricordo come fosse ieri quando, da studente, partii da Budapest per andare a Parigi a vedere il Centre Beaubourg per la prima volta. Mi spiazzò. Era come una navicella spaziale, così implacabilmente moderno, così diverso da qualsiasi cosa avessi mai visto prima, un’idea radicalmente nuova di ciò che può essere un museo, non solo dal punto di vista architettonico, poi si dimostrò, ma per come esso definiva il suo ruolo e le sue funzioni e per il tipo di programmazione. E ci sono molti riferimenti culturali che legano gli appartenenti a una stessa generazione, dalla musica, ai film, ai libri, ai momenti politici più rilevanti della loro vita, indipendentemente da dove essi vivano.
Un altro punto di collegamento è dove ci situiamo nella traiettoria evolutiva del museo e su quali problematiche ci stiamo concentrando di conseguenza a questo fatto. Ci sono determinati problemi e determinate possibilità che si rendono visibili in determinati momenti specifici. Si può dire che l’era postbellica rappresentò un enorme balzo infrastrutturale nella costruzione dei musei, prima in Europa e in Nord-America, e in seguito a livello globale, soprattutto in Cina. Ora l’attuale generazione di leader deve domandarsi qual è il software adatto per animare tutto questo hardware? Alcune cose che prima non sembravano problematiche ora dimostrano di esserlo, mentre altre cose che erano problematiche prima, non sembrano esserlo più. Alcuni problemi sono già stati risolti e ora il campo viene riempito da altri problemi. Le persone lavorano a questi dilemmi condivisi e ciò le mette in relazione in un campo che in un certo senso è unificato.
Un terzo collegamento è dato dal sistema dell’arte globalizzata — che, dobbiamo ricordare, è ancora molto nuovo. Molte persone di origine asiatica che hanno contribuito a questo libro parlano di come, più o meno quando nascevano le prime Triennali Asia Pacific, curatori e operatori museali in Asia iniziarono a viaggiare, creando un senso di interconnessione che prima non esisteva. Lo stesso dicasi per gli operatori museali dell’Europa dell’Est, dell’America Latina, e così via. Il fatto che viaggiare sia economico, l’apertura delle frontiere, la globalizzazione delle istituzioni, tutto ciò permette alle persone di entrare in collegamento fra loro. Le figure di questo libro fanno parte di una tribù di nomadi che si incontra negli hotspot culturali, da Frieze e Art Basel a Documenta. Formano una comunità e una rete di professionisti che è sempre più legata da un filo continuo rispetto a quanto avveniva nei decenni precedenti. Comprensibilmente, condividono un linguaggio comune e una percezione condivisa di molti obiettivi e opportunità.
DZ: Nelle tue conversazioni ti sei confrontato con parecchi direttori giovani, che spesso lavorano in istituzioni relativamente recenti. Cosa pensi li differenzi dalle generazioni precedenti?
AZ: Alcune differenze sono ovvie, come la familiarità che hanno i nativi digitali con le tecnologie moderne, e un atteggiamento più progressista su temi come inclusione, sessualità, ecc.
E poi ci sono aspetti meno ovvi, ad esempio, in quanto europeo che vive in America, un paese in cui l’eredità perdurante del colonialismo si fa sentire in modo molto acuto e dà origine ad ampie discussioni – in particolare nel 2020, quando il mondo dell’arte faceva i conti con temi come le ingiustizie razziali ed economiche (George Floyd fu ucciso proprio quando iniziavano le prime interviste per il libro) – sono rimasto sorpreso nel sentire il modo in cui alcuni giovani leader in Africa pensano al colonialismo. Per alcuni di loro la discussione sul colonialismo, se da un lato è assolutamente necessaria e inevitabile, emerge sotto una luce diversa. Come una di loro spiega nel libro, il suo paese è stato colonizzato per cinquant’anni nell’arco di una storia di mille anni, e quegli anni erano molto tempo fa. Per quanto importanti siano queste eredità storiche e le lezioni tratte da quelle esperienze, le generazioni più giovani sono più interessate a costruire istituzioni moderne in società fiorenti, piene di vivacità e di opportunità economiche. Non desiderano essere definiti da una narrazione post-coloniale che richiama alla memoria il passato. Vogliono impegnarsi nel presente.
In altri luoghi io penso che una generazione giovane di leader museali potrebbe essere più ricettiva nel provare a fare qualcosa di nuovo e sbarazzarsi di certi mostri sacri. L’esperienza di alcuni musei in Asia può essere particolarmente interessante. Questi non sono appesantiti dal bagaglio storico che devono invece sostenere le istituzioni europee. Possono essere più intraprendenti e possono infrangere le regole. Alcuni osservatori magari troveranno spaventosa questa idea, ma per continuare a rimanere rilevanti in una società in continuo mutamento, le istituzioni devono essere pronte a sperimentare cose nuove.
DZ: C’è qualcosa, in base alle esperienze di cui sei venuto a conoscenza, che senti di poter consigliare a un aspirante direttore di museo? E a chi invece è già alla direzione di un’istituzione?
A me, tra i tanti aspetti che avete toccato, ha colpito molto l’insistenza su quanto il museo debba disimparare. E sulla necessità di una concezione meno elitaria del museo, e dell’arte. Solo per citare due concetti di cui potrebbero far tesoro forse entrambe le figure. Ma vorrei sentire te a riguardo.
AS: Sono argomentazioni eccellenti portate nel libro dalle persone intervistate. Incoraggio i vostri lettori a trovarle lì. Effettivamente la domanda sul disimparare ha stimolato molte risposte suggestive. In alcuni punti chiedo ai direttori quale consiglio darebbero agli aspiranti direttori di museo. Non voglio rubare le loro idee. Una delle mie risposte preferite è stata quella di Hans Ulrich Obrist, che ha detto che, invece di dare un consiglio ai giovani direttori, vorrebbe imparare da loro. Questo è un buon consiglio non solo per i direttori giovani, ma anche per quelli più vecchi.
Quello che voglio dire è che chi è a capo delle istituzioni culturali ha una grande opportunità per essere più visibile in questo dibattito pubblico. Questo accade in alcuni paesi europei, ma negli Stati Uniti, dove vivo, raramente i direttori di museo compaiono negli editoriali, ad esempio, o nei programmi di attualità, per parlare di importanti questioni sociali. Lo stesso vale per i rettori delle università. Per lo più sono invisibili nello scenario pubblico. La ragione è semplice: il loro compito è mettere d’accordo persone molto diverse fra loro che sono nel consiglio di amministrazione e danno loro dei soldi e che potrebbero non condividere le loro idee politiche. Quindi in generale preferiscono restare in silenzio.
Ma se vogliamo avere musei più impegnati dal punto di vista sociale, che rappresentino la piattaforma di idee rilevanti, e che svolgano un ruolo nell’immaginare e creare una società migliore – tutte cose a cui i musei d’oggi aspirano – allora avrebbe senso per chi amministra queste istituzioni aumentare il proprio impegno pubblico nel modellare attivamente il dibattito intorno alle tematiche che per noi sono più significative. C’è uno spazio vuoto, in attesa di essere riempito con una leadership di pensiero. E ci sono tematiche fondamentali che si ripercuotono internamente sul settore museale e su quello culturale, tematiche che non dovrebbero essere lasciate in balia di avvocati, studiosi, della criticocrazia o del coro dei social media.
DZ: C’è un dialogo a cui sei particolarmente legato? Per quali motivi?
AS: Questa domanda è una trappola e io non ci cascherò. Sono tutti importanti per me in modi diversi. Mi piace ripensare al processo, non soltanto ai risultati. Creare questi dialoghi è stato un processo collaborativo che spesso ha coinvolto cicli multipli di revisioni in un momento particolarmente tormentato delle nostre vite. E a causa del cambiamento di fuso orario, alcune conversazioni hanno avuto luogo a tarda notte o in altri momenti bizzarri della giornata o durante il fine settimana. Ho bei ricordi di questi incontri. Presi tutti insieme, essi definiscono la mia esperienza del periodo della pandemia.
DZ: Mi piacerebbe chiudere ponendoti una domanda che hai fatto di frequente ai tuoi interlocutori. Che cos’è museo per te? Che museo sogni per il futuro?
AS: Un museo in cui mi sento a casa e che, però, è sempre capace di sorprendermi.