Museo Burel, Belluno. Una conversazione con Daniela Zangrando di

di 23 Aprile 2019

Zoe De Luca: Il museo prende il nome da una montagna delle Dolomiti bellunesi, la Cima del Burel. Scalata per la prima volta solo negli anni Sessanta, la “cima del burrone” è appunto caratterizzata da un’imponente parete verticale. Che cosa ti ha portato a rappresentare il museo con questa suggestione?

Daniela Zangrando: Il Burel è una delle cime del Gruppo della Schiara, barriera montuosa che si può vedere anche da Venezia nelle giornate più limpide. È una montagna dal piglio decisamente severo. Incute timore. Ma non è inaccessibile. È solo profondamente etica. La possibilità o meno della sua ascesa è legata all’allenamento, alla precisa conoscenza del suo linguaggio nelle diverse stagioni dell’anno, alla dedizione. Al sogno. Avvicinarmi all’alpinismo e alle sue grandi questioni ha cambiato il mio atteggiamento nei confronti dell’arte. Ed è qualcosa che devo tener presente se voglio dirigere questo Museo e fare il curatore.

ZDL: Lavorando per anni nel bellunese hai avuto modo di testare diversi formati, dalle residenze di perarolo09 alla rivista d’avanguardia L’Allocco. Come sei arrivata all’esigenza di aprire un museo?

DZ: Vedo Burel come la naturale evoluzione della mia ricerca, che da un lato ha come perno quello delle esperienze fatte tra il 2005 e il 2012 a Perarolo di Cadore, proprio nel bellunese, e dall’altro quello del confronto che ho avuto con spazi completamente differenti e meno legati a contesti e territori, come nel caso della direzione di Monotono Contemporary Art a Vicenza. L’esigenza ha covato con forza negli anni in cui ho deciso di allontanarmi un po’ dall’ambito della curatela indipendente. Ad un certo punto tutti i pensieri sono arrivati a coincidere con l’idea di aprire uno spazio. Non mi andava bene pensare ad un contesto privato, ad una galleria. Volevo un Museo, pur nella consapevolezza delle contraddizioni e della complessità a cui stavo andando incontro.

ZDL: Il museo si prefigge infatti di offrire una programmazione di qualità, senza però presentarsi in maniera distaccata e autoreferenziale. In che modo le attività del museo dialogheranno con il territorio?

DZ: Burel è un Museo d’arte contemporanea. Questo è il linguaggio che parla e deve parlare. Ma penso che un Museo non possa essere una camera di isolamento, un luogo sterile rispetto a quanto c’è al di fuori. Sento la necessità di un organismo permeabile al contesto in cui si inserisce. In provincia di Belluno le montagne sono presenze determinanti sotto differenti punti di vista. Sarebbe ridicolo pensare di ignorarle.

ZDL: Avete inaugurato con una personale di Luca De Leva. Quali aspetti della sua pratica hanno portato a questa scelta?

DZ: Seguo il lavoro di De Leva da qualche anno. Ho iniziato a guardarlo con costanza a causa di un lavoro che non mi convinceva per niente e mi irritava. Studiando e cercando di capire, mi sono scoperta incuriosita nei confronti di una postura – come definisce lui la disposizione che ha nei confronti della pratica artistica – e di una quotidianità immersiva nel vivere la propria ricerca. Ho cominciato a pensare ai suoi lavori mentre portavo a passeggiare il cane, quand’ero in macchina o al supermercato. E mi è venuta una gran voglia di chiedergli di mettersi in gioco per l’inaugurazione del Museo.

ZDL: C’è un criterio particolare che guiderà la scelta degli artisti e dei relativi progetti che proporrete?

DZ: No, solo la qualità e l’intensità.

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