Fondazione Coppola: le ragioni di un’apertura di

di 18 Aprile 2019

La Fondazione Coppola aprirà al pubblico il prossimo 5 maggio, all’interno di un Torrione trecentesco nel centro storico di Vicenza. A inaugurare la programmazione sarà “La Torre”, una doppia personale di Neo Rauch e Rosa Loy a cura di Davide Ferri. Il progetto è fortemente voluto dall’omonimo imprenditore e collezionista, che ne parla in questa intervista con Barbara Meneghel.

Barbara Meneghel: Il suo approccio all’arte si basa su “un’attenta lettura asciutta e di stampo filosofico, senza concessioni alle nebulose interpretative del manierismo contemporaneo”. Mi spiega questa descrizione che Nicola Samorì, artista che le è molto vicino, fa di lei? Che tipo di collezionista è Antonio Coppola?
Antonio Coppola: Cerco soprattutto di interpretare quello che viene offerto dal panorama internazionale attraverso il mio gusto, le mie letture, la mia storia personale. Può sembrare scontato collezionare artisti già molto noti, seguendo i canoni curatoriali attuali: cerco quindi di pensare con la mia testa, con un occhio attento soprattutto ai giovani – proprio per evitare di andare a occupare quelle nicchie che sono già ampiamente coperte da molti collezionisti. Cerco di percorrere la mia strada, anche se molte delle scelte che faccio, me ne rendo conto, vanno controcorrente.

BM: E lo “stampo filosofico” di cui parla Samorì?
AC: Ho un rapporto molto stretto con Nicola, quindi lui è in grado di cogliere questa attitudine da quelle che sono le nostre conversazioni via e-mail. Al di là di questo però, ho un background umanistico (ho studiato letteratura e filosofia), quindi è inevitabile che al centro della mia ricerca sia presente anche un approccio teorico. C’è un allineamento tra la mia indagine estetica e quello che è il mio pensiero più intimo – senza però voler ricadere in inutili manierismi, appunto.

Rosa Loy, Basis, 2018. Caseina su tela. 150 × 100 cm. Fotografia di Uwe Walter. Courtesy Kohn Gallery, Los Angeles; Galerie Kleindienst, Leipzig e Gallery Baton, Seoul. © Rosa Loy, VG Bild-Kunst, Bonn.

BM: Come è nata la collaborazione con Davide Ferri per la mostra di apertura? In base a quali criteri sono stati selezionati gli artisti?
AC: La scelta è nata del tutto spontaneamente, senza l’imposizione di alcun criterio specifico da parte mia. Già alcuni anni fa conobbi Neo Rauch e Rosa Loy, artisti tedeschi di levatura internazionale, e con loro era nato un rapporto di amicizia. Quando iniziai questa avventura, quindi, sono stati tra i primi a visitare il Torrione. Si sono innamorati dello spazio, ed è nata così la decisione di collaborare. Quanto a Davide Ferri, l’ho conosciuto nel 2013 in occasione della mostra sulla pittura italiana “La figurazione inevitabile” che aveva curato al Centro Pecci. È una persona molto preparata, convinta e concentrata su quella che è la pittura contemporanea, di cui è un profondo conoscitore. Ho pensato che per una mostra con artisti di questo calibro avesse senso collaborare con un curatore, e una figura come quella di Davide mi è sembrata perfetta. La mostra di apertura includerà una serie di dipinti e disegni di entrambi gli artisti: le opere di Rauch sono tutte inedite, mentre quelle di Loy ricoprono un arco temporale di circa due anni. La doppia personale si intitolerà, non a caso, “La Torre” – un’immagine che ricorre anche nella pittura figurativa di Rauch, e che inevitabilmente rimanda alla particolare conformazione architettonica del luogo.

BM: Molto è stato detto sulla scelta, sull’acquisizione e sulla ristrutturazione del Torrione trecentesco che accoglierà la Fondazione. Che tipo di spazio sarà, invece, dal punto di vista strettamente espositivo?
AC: È un ambiente molto speciale, che un artista deve necessariamente visitare di persona prima di esporvi: quando si lavora all’interno di un monumento c’è un confronto con una serie di simboli, che alla fine vanno necessariamente a imprimersi nella mente di chi lo interpreta. Il luogo deve essere affrontato, addomesticato, vissuto. Il Torrione, costruito nel 1300, era già stato splendidamente restaurato circa vent’anni fa, ma la ristrutturazione di allora non prevedeva alcun utilizzo specifico. E purtroppo, esauritosi l’entusiasmo iniziale degli acquirenti, la struttura è stata lasciata a se stessa. Quando l’ho vista la prima volta quindi, ho subito pensato che potesse essere destinata all’arte contemporanea. Un monumento del genere meritava un progetto che avrebbe potuto riqualificare lo spazio, rispondendo anche a uno dei miei sogni nel cassetto: come tutti i collezionisti, desideravo un luogo in cui poter esporre le mie opere. Così con lo studio UP3 Architetti Associati, che mi segue da anni, l’abbiamo restaurato secondo i criteri necessari per l’esposizione di opere d’arte. Abbiamo rifatto ex novo l’intero impianto di illuminazione, e ora ogni zona può essere dimmerata – piano per piano, metro per metro – in modo da ottenere il giusto livello di luminosità. Abbiamo integrato tutti i dispositivi che mancavano per la sicurezza dei visitatori, introdotto la video-sorveglianza, e abbiamo inserito una pannellatura fissa di alto livello per le opere bidimensionali. Il risultato è uno spazio ‘museale’ a tutti gli effetti, creato ad hoc per esporre opere d’arte. Dal punto di vista strutturale infine, il Torrione è composto da sei livelli a cui si aggiunge una torretta (che al momento non sarà coinvolta).

BM: Che genere di città è Vicenza? Come pensa che sarà accolta dai cittadini una realtà strettamente legata all’arte contemporanea internazionale?
AC: Bisognerà lavorare con una decisa attività sul territorio. Le fondazioni, dopotutto, hanno un senso se offrono un servizio alle comunità nelle quali operano, altrimenti diventano realtà sterili. È un’operazione culturale, di conseguenza ci adopereremo affinché la comunità vicentina possa interessarsi e essere attratta da questo luogo che per me è straordinario. È anche un modo per far ri-affezionare i cittadini alla loro storia: in questo senso, mi piace definire il Torrione un acceleratore di sogni. Molto spesso la gente si sposta con fatica per l’arte contemporanea, se manca quel qualcosa in più che va ad accendere l’entusiasmo, e questo qualcosa spesso è legato all’identità, alla storia di una comunità.

BM: Mi piacerebbe sapere qualcosa di più sulla produzione di Solo, la serie di pubblicazioni monografiche che la Fondazione realizza a partire dal 2011 dedicandole ai singoli artisti della collezione.
AC: Solo è una mia iniziativa che svolgo come collezionista. È una vetrina per artisti giovani che hanno suscitato il mio interesse, un progetto in cui credo e che, sono certo, continuerà. L’idea è quella di realizzare delle mostre personali virtuali, e quindi dedicare ampio spazio alle immagini rispetto al testo – che mantiene comunque un alto livello qualitativo, con autori scelti in maniera molto accurata. Tuttavia non bisogna mediare le immagini, queste devono colpire di per sé. Dopotutto, parliamo di arti visive.

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Barbara Meneghel