La pittura di Andrea Kvas non segue i canoni del medium, li disarciona lasciandoli scivolare verso linguaggi scultorei, relazionali e curatoriali. Se ci limitassimo a una visione di questa sua personale filtrata dalle immagini fotografiche, faremmo fatica a percepire il movimento che invece straborda dalle tele stesse. È necessario esperire di persona le opere in questo spazio, nell’aria sospesa che le avvolge, nella densità delle stratificazioni, nella pelle delle crettature studiate e attese grazie alle proprietà di materiali inusuali, nella viscosità dei colori che assorbono la luce mediana rivelandone la potenza sopita, nella matericità delle vernici industriali che ossidando scandiscono il tempo del quadro modificandone, dall’esecuzione all’asciugatura, toni e sfumature. I filamenti pastosi si aggrappano alle superfici intrecciandosi per gioco, senza nascondere il proprio spessore colloso, l’acquosità del colore si spande sulla tela lasciando, come un’onda in ritirata, alcune gocce sperse sul bagnasciuga, e si percepisce l’odore dei materiali edilizi – idropittura, smalti, resine, polveri, colori acrilici, gommalacca, lattice – decisi come le braccia forti di un lavoratore che conosce il suo mestiere.
Una mostra che va compresa così, tutta d’un fiato, nella totalità dell’esercizio sensoriale.
La collocazione a parete delle tele ha il sapore di una rivoluzione all’interno di un percorso, quello di Kvas, fatto di pittura viva, scultorea, tridimensionale, orizzontale, piuttosto repellente alla disposizione verticale. Quadri appesi al muro, non più a terra o tracimanti nello spazio che appartiene allo spettatore, non più espansi nella tridimensionalità scultorea dell’oggetto. L’artista rinuncia alla performatività, alla pluridirezionalità del supporto che contemplava spesso tavole di metallo, listelli di legno dipinti su tutti i lati, tele non intelaiate capaci di arrotolarsi, piegarsi o distendersi, distribuendosi nello spazio in modo libero e instabile. Il quadro torna a essere quadro, uno spazio a due dimensioni che si fa osservare per esistere, che si fa attivare dallo sguardo perpendicolare dello spettatore in un confronto a tu per tu antico quanto indispensabile. Abbandonati i toni più meditativi, questa nuova produzione espressamente concepita per lo spazio e per la mostra, sprigiona un’energia gioiosa, ironica, spensierata: un mondo fatto di strati e di stesure, di equilibri e disequilibri, di materiali e di pensiero che rende le superfici vive e vibranti, magnetiche.
Solo due lavori appartengono a una produzione precedente, tra cui il manifesto che accoglie come un enigma il visitatore all’entrata: Blac Ilid. Una storpiatura che evoca suoni familiari negandoli immediatamente, due parole prive di un significato precipuo che accarezzano reminiscenze lontane e celebrano l’idea di scrittura – oltre a dare il titolo alla mostra. Il font è stato appositamente creato dall’artista e ricorre in varie opere ricordando il passato da writer che lo ha introdotto inizialmente al mondo delle immagini.
Kvas dipinge quasi sempre sul piano orizzontale (inutile scomodare la pittura astratta americana di cui eredita solo parzialmente la danza esecutiva), stendendo la tela tirata a terra, muovendola poi per ottenere espansioni e smagliature, colature e movimenti casuali quanto in realtà rigorosamente controllati. Spesso si trova ad agire su più tele allo stesso momento, creando legami inattesi e profondi tra i lavori, lasciandoci scovare nuance raffinate che si corrispondono da una superficie all’altra raggiungendo risultati completamente differenti in ciascun dipinto. Le atmosfere acquose dei verdi e degli azzurri suggeriscono un paesaggio marino, restituendone le profondità variopinte e trasparenti, come quelle percepite dall’occhio che affonda nei limpidi fondali illuminati di luce radente. Figurazione o astrazione? Non è questo il punto: le immagini diventano “pretesti”, afferma l’artista.
Davide Ferri, nel suo testo di accompagnamento, annuncia il verificarsi di un evento tanto genuino quanto epifanico: “non è superfluo dire che questa mostra ha una strana compostezza e che la variabilità, che è uno dei tratti fondamentali della poetica [di Kvas], si traduce in una vibratilità di forme che invitano lo spettatore a muoversi, a rinnovare la visione del dipinto ogni volta che individua un diverso punto di vista da cui guardarlo. BLAC ILID, appunto, è una mostra di quadri”.