Californiano d’origine, Steve Riedell lascia trapelare nei suoi lavori tanto una familiarità biografica (e geografica) con un certo tipo di luce, tanto un’attitudine concettuale alla pittura che richiama predecessori illustri legati alla città di Los Angeles, da Ed Ruscha a John McCracken. La mostra personale allo Studio Trisorio, “The Days”, riunisce opere realizzate negli ultimi cinque anni che estendono la ricerca avviata con i “Folded-Over Paintings” (2010–2013), esposti sempre a Napoli nel 2013 e realizzati tramite una manipolazione della tela sul supporto che da vita a forme inusuali, per certi versi precarie. Alla base di questi lavori vi è l’idea di scansione che torna sia in termini formali, sia appunto concettuali; è il tempo il grande scultore – parafrasando Marguerite Yourcenar – che suggerisce la forma finale di queste opere, ottenuta grazie a un lungo processo di stratificazione, decostruzione e ricostruzione che va al di là della superficie pittorica per comprendere tutto il telaio. La pittura non fa altro che reinterpretare il supporto e integrarlo per dare vita a un oggetto unico, tridimensionale, le cui fasi sono “spiabili” dalla prospettiva laterale che ne rivela il gioco di sovrapposizioni. Solchi e rattoppi fanno parte del processo, così come l’utilizzo della cera d’api mista alla pittura a olio che rende le superfici compatte ma estremamente sensibili ai cambi di luce. La suggestione originaria di una staccionata domestica – immagine alla quale Riedell fa riferimento per raccontare la capacità della pittura di stratificarsi su un oggetto nel tempo, dandogli forma – ricorre nelle campiture di colore che, come listelli, si sfalsano con un proprio ritmo.
Ed è proprio il ritmo, del tempo e della musica, che diventa filo conduttore rendendo questi dipinti delle possibili partiture, ma anche trasformando in partitura lo stesso spazio della galleria che vede opere diverse per forma e dimensioni cadenzare le pareti. La musica è inoltre protagonista dei lavori su carta, dove la stratificazione dei dipinti si fa sovrascrittura e quindi occasione per tornare su uno strato precedente, in questo caso linguistico. In Layered Phrase Drawings (1993-1995) le parole che compongono titoli di canzoni si ricombinano tra loro per suonare come aforismi (“There’s no Place Like Home”, “Who Knows Where the Time Goes”) e riecheggiano una sopra l’altra, sbiadendosi come in un’eco che lascia indietro, sullo sfondo, il primo enunciato; si tratta di superfici-palinsesto la cui pelle è stata grattata via per scoprire un messaggio sottostante. Appartengono invece al ciclo “Song Lyric” i lavori su carta – Astral Weeks(2006), Song Lyric Drawing (Blood on the Tracks, Bob Dylan) (2010), Song Lyric Drawing (Viva Hate, Steven Patrick Morrissey) (2017) – in cui testi di canzoni di Bob Dylan, Steven Patrick Morrissey, Van Morrison sono prima battuti a macchina, poi ritagliati e meticolosamente ricostruiti a partire dalle singole lettere, disposte in spirali che suggeriscono un disco in movimento. La pratica meticolosa, quasi ossessiva, con cui l’artista scompone e poi ricompone questi brani non è altro che un ulteriore espediente per chiamare in causa il tempo e rivela una continuità con la produzione pittorica, anch’essa fondata sul fare e disfare, alla ricerca di una validazione finale che è anche la chiusura del cerchio.