Corpi, profumi. Un dialogo sulle possibilità dell’assenza del corpo nello spazio espositivo di ,

di , 8 Luglio 2021

Questo dialogo nasce dalle due mostre personali degli artisti Davide Stucchi e Corrado Levi a Milano, rispettivamente “Falli” da Martina Simeti e “Di amici di uomini e di Pontormo” da RIBOT – arte contemporanea, che si sono svolte nello stesso momento. Stucchi e Levi, pur appartenendo a due generazioni molto distanti, indagano da prospettive simili la dinamica del desiderio nelle proprie biografie.
Il corpo è la sua assenza, la sua presenza è legittimata dalla sua stessa frustrazione. Presenza e assenza del corpo convivono nelle produzioni e nella vita di Stucchi e Levi. I due si incontrano per la prima volta alla XVI Quadriennale di Roma nel 2017, nella mostra “Ehi, Voi!” a cura di Michele D’Aurizio; poi, successivamente, per un intervento che Stucchi chiede a Levi e installa nella sua prima personale alla galleria Deborah Schamoni di Monaco sempre nel 2017. E dopo ancora per una doppia personale che realizzano insieme da Zazà Napoli nel 2020. Negli anni il rapporto tra i due artisti si è sviluppato attorno a un vuoto a cui hanno cercato di dare forma. La conversazione che segue è un affondo sui corpi come oggetto e soggetto espositivo, il loro rapporto con lo spettatore e la relazione fra artista e produzione prendendo reciprocamente spunto da alcune opere delle rispettive mostre.

Davide Stucchi: Il corpo maschile è spesso evocato in assenza nel nostro lavoro, ma è l’altro che cerchiamo di raffigurare o noi stessi? Ad esempio nel lavoro Uomini di Corrado Levi (1985–2020), tu ci sei?
Corrado Levi: Uomini di Corrado Levi è un gioco in assenza, gli altri e me sono solo detti. È un detto verbale che dice un mio desiderio ma gli altri purtroppo non ci sono!

DS: Mentre visitavo la tua mostra “Di amici di uomini e di Pontormo” le silhouette dipinte in Tracce di Nudi (1982) del piano superiore entrano nella mia esperienza in relazione con quelle del graffito newyorkese A Roberto (1983) esposte nel sotterraneo, in cui io intravedo un torso. Mi salta all’occhio il rapporto tra il corpo di un writer mentre scrive davanti al muro, che immagino visto da te di spalle, e questa tela installata a filo con il pavimento, quasi a richiamare la presenza di figure davanti alla tua tela. In particolare nel quadro Serie Autunno (1982), due mani raffigurate verso l’alto dipinte di verde mi ricordano il Modulor di Le Corbusier e il rapporto tra uomo e architettura. Ci avevi pensato?
CL: Al Modulor non ci avevo pensato, ma sono contento che tu l’abbia visto. Certo il writer è colto da dietro mentre esegue, ma il paradosso sono io che eseguo il graffito! Lui che fa è un’immaginazione, un enigma anche per me! Come nelle quattro foto esposte affianco: Radio amico (1986–2021), esserci realmente e non esserci realmente!

DS: La radio è un elemento etereo e effimero, senza materia, come la voce, lo sguardo, il profumo. In che modo Radio amico è un ritratto? Come si accende?
CL: Radio amico è uno scherzo: la radio appoggiata alle natiche o che nasconde il sesso o lui che fotografa me e a sua volta fotografato da me! È insieme una censura e un labirinto! In questo lavoro mi pare tutto palese salvo il bellissimo corpo del ragazzo, un enigma insondabile. Questo lavoro riguarda il mio desiderio, la vita pardon!

DS: L’architettura di entrambe le gallerie che ospitano le nostre mostre a Milano presenta una stanza sotterranea, alla quale si accede tramite una scala. Come hai utilizzato questo spazio? Dove volevi portare le persone che sono venute ad incontrare le tue opere? O dove avresti voluto che portassero te?
CL: Lo spazio di sotto raccoglie opere diverse così da suscitare diverse direzioni di ‘voglie’; la tela A Roberto (1983) ricorda la mia esperienza coi graffitari di New York per cui mi avvelenai lavorando con loro per strada! La tela ora non so più se l’ho fatta io o l’hanno fatta altri! Che bell’enigma per me! Non ho pensato alla dimensione sotterranea della tua mostra ma il paragone mi piace. Infatti, quando ho visitato la tua mostra “Falli”, e sono entrato nella stanza attraverso le scale ho fatto esperienza di un’alterità del corpo, del suo profumo, diversa rispetto al livello soprastante. Questo spostamento ha dato una profondità insondabile alla tua mostra.

DS: È tutto esplicito e lì, nella tua mostra. È figurativo ma allo stesso tempo un inseguimento, perché innesca il nomadismo del corpo su se stesso. Confusione di linguaggio e linguaggi, come nell’opera Ce l’ho in un piede (1987–2021). Un volto che guarda il piede si specchia e si connette con il titolo dell’opera. Chi guarda? Come si chiama? Sono io?
CL: È chiunque si specchi nell’opera. Il titolo riprende un modo di dire, anche qui c’è un depistaggio.

DS: Che rapporto hai con questi lavori degli anni ‘80 che hai esposto in questa mostra? Per te quanto tempo deve passare per un’opera, affinché parli indipendentemente, anche quando non ci sei?
CL: C’è immediatamente un distacco dall’opera appena fatta. Perché, se è riuscita, l’opera è qualcosa in più di me, e la guardo sopendomi e imparando! Per un’opera fatta quaranta anni fa c’è un doppio livello.

CL: Vorrei chiederti come hai gestito dentro di te le tende, i disegni e la stanza al piano inferiore? Mi chiedo se c’è stato un allagamento, uno stiramento nel tuo sentire capace di investire tutto lo spazio…
DS: Appena ho visitato lo spazio con Martina, quando ancora era un cantiere, avevo in mente di utilizzare soltanto la stanza interrata per esporre i disegni, poi ho cambiato idea e ho scelto di lasciare quella stanza vuota, per accogliere soltanto il rumore della tenda agitata da chi vi fosse passato attraverso, e il profumo che rimane in quella stanza in attesa del visitatore.

CL: Le tende sono aggrovigliate, come? Mi hai raccontato di averle comprate online. Come hai messo insieme il loro erotismo che sento con la vendita online che hai citato?
DS: Le tende si aggrovigliano per via del passaggio di qualcuno che non c’è. Si intitolano Falli (Bathroom), Falli (Kitchen), Falli (Bedroom), Falli (Entrance), e sono tutte opere del 2021. Ho simulato dei passaggi in ambienti domestici e poi ho fermato nella mia mente e nello spazio lo struscio di un corpo tra le perline delle tende. Una tenda, quella che porta al piano interrato, era già presente nello spazio quando era un sexy shop. Non la stessa, io l’ho cercata identica e installata nello stesso modo. Quella porta il nome del negozio, Falli (Planet Sex). Di tende ne ho portate alcune, come ti ho raccontato, ma quella che c’era già forse ha influenzato le altre a muoversi seppur restando ferme.

CL: Parliamo dei disegni erotici, la serie che hai intitolato “Falli”, tra cui ci sono anche quelli dedicati a Walter Albini. Funziona come un’altra alterità lui?
DS: Albini e la sua mostra “Falli” del ‘77, presentata sempre a Milano alla galleria Eros, mi ha dato l’idea di intitolare così anche la mia mostra. Volevo creare un dialogo impossibile ma anche avvicinarmi a una sensibilità diversa, ma non troppo lontana dalla mia. Nella sua mostra Albini, al posto di presentare la collezione uomo per quella stagione ha allestito nella galleria una serie di sculture di falli vestiti e nella serie “Falli (SEND (Couture) NUDES)”, ho voluto fare lo stesso. Alcuni disegni sono del 2013 altri di oggi, e se ricordi alcuni te li ho mostrati quando abbiamo esposto insieme presso Zazà a Napoli. Anche in quel caso mi interessava inserire la tua persona e nello specifico i tuoi schizzi di architetture realizzate dopo aver visto i miei disegni per erotizzarli e farli dialogare insieme.

CL: Cos’è per te questa tua mostra? La senti come un successo come lo è anche per noi che la vediamo?
DS: Per me è parte di un racconto, condividerlo con la mia comunità è un successo. Che cos’è poi il successo? Forse per una mostra fatta solo un mese fa è ancora presto per dirlo?

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Corrado Levi