“Vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno”1. A questo mi ha fatto pensare UFO garage bar/band, dispositivo conviviale realizzato da Kinkaleri, Mk, Le Supplici, Canedicoda, Roberta Mosca e Margherita Morgantin per la serata inaugurale di Live Arts Week 2021, festival Bolognese delle arti performative a cura di Xing. Il lavoro, un bancone circolare progettato per essere sorretto da chi beve, si è mosso lungo le traiettorie etiliche dei suoi avventori fluttuando per il parco fluviale del Reno, location di questa decima edizione del Festival. Un’opera-vernissage che ha dato il via a nove giorni di eventi che ha visto più di cinquanta artisti animare un habitat inconsueto: una zona in cui la periferia bolognese lascia il posto a prati, canneti e aree boschive frequentate da un pubblico spesso ignaro di esserlo.
Molti dei progetti più interessanti presentati quest’anno sfruttano le peculiarità del luogo e di un format che non ha precedenti nella storia della manifestazione, nel tentativo di aprire spiragli su una dimensione aumentata della realtà del paesaggio, sfruttando l’intersezione di molteplici pubblici e rivendicando l’ambiguità di opere che rifuggono l’imperativo del mostrarsi per esistere indipendentemente da uno sguardo che le recepisca. FlyaGo!, app di realtà aumentata di Francesco Cavaliere, ci permette di entrare in contatto con entità digitali disseminate nel territorio. Partorite dall’immaginario dell’artista, queste creature emettono suoni e pronunciano frasi misteriose, trasformando la visita dello spettatore in una caccia al tesoro dai risvolti poetici. Parentesi, di Standards, è una passeggiata mediata dall’utilizzo di un microfono binaurale che provoca uno sfasamento percettivo – lo spettatore sente come suoi i suoni prodotti dal performer che lo precede – trasformando il vento tra le foglie in un rumore assordante e offrendo all’ascolto qualcosa che c’è ma elude il regno del percettibile. I ragazzi di Lele Marcojanni, appostati con la loro attrezzatura in differenti punti del parco producono un live movie in streaming dal titolo Temporali, rendendo i visitatori potenziali comparse di un’opera effimera che dura il tempo del festival e, senza pretese documentaristiche, lo ingloba. Alessandro di Pietro realizza Dogma Zoom, un’installazione perfomativa in cui, un gruppo di “post-hippie” accampati sulla sponda del fiume, costruisce, con materiali trovati, il mockup d’una città visibile dallo spettatore, dalla riva opposta, soltanto tramite lo zoom di un obiettivo. I quattro personaggi, che non a caso si servono di opere d’altri artisti come oggetti di scena, sembrano rappresentare la forma minima di una comunità impegnata a reimmaginare una società destinata a crollare come un castello di sabbia. Ne In the beginning there was nothing, but it was kind of fun watching nothing grow, Andrea Magnani crea dei sentieri che conducono ad aree sabbiose intrise di profumo e ferormoni che attraggono a sé i cani e i loro padroni, i quali si trovano a fare un’esperienza del luogo perturbata da qualcosa di estraneo. Del suo lavoro, l’artista scrive: “Spostando le condizioni che ci consentono di identificare certe tracce come veri e propri interventi artistici, la nostra attenzione attraversa il lavoro senza soffermarsi fin da subito su di esso, lasciando che si manifesti solo dopo – o forse mai – come dubbio”.
Tra gli interventi più tradizionalmente performativi, Jacopo Benassi presenta Hunt Me Down, opera notturna ispirata a George Shiras, in cui l’artista dispone tra le piante alcune macchine fotografiche con flash che, scattando, offrono scorci del corpo nudo dell’artista che si muove, come un’animale, in mezzo alla boscaglia. Il pubblico, mentre osserva la bestia, non sa di essere il soggetto, preso in trappola, di una serie di fotografie che lo ritraggono. Michele di Stefano mette in scena , una chiacchierata sull’erba in cui alcuni performer recitano in differita, ascoltandola da un auricolare, una piece composta da stralci di conversazioni tra il serio e il faceto. La parola, decontestualizzata, perde di significato pur dando vita a un momento di grande intimità di cui l’artista rivendica la dignità.
Spooky Actions di Michele Rizzo chiude con eleganza questa edizione del festival. Nell’opera due performer trascinano sul terreno delle lastre di vetro quadrate, intagliate con fessure che ne rendono ergonomico e coreografabile il trasporto, mentre i performer si muovono alla ricerca d’un punto in cui adagiarle per sedervisi sopra. I due, posizionati uno di fronte all’altro, si immergono alternativamente in stati immaginativi, offrendo reciprocamente sguardi che conferiscono valore a un atto che, nonostante la sua impalpabilità, diviene gesto. “L’azione stessa del guardare – scrive l’artista – è spaventosa, spaventosamente ricca di responsabilità, nel proprio essere atto che dona dignità di esistenza a ciò su cui lo sguardo si posa”. Il guardare però non è quello d’un pubblico, ma è il guardarsi dei performer che danno vita a una danza potenzialmente infinita poiché sufficiente a sé stessa. Un gioco di coppia che continuerà ad abitare, nell’immaginazione, i prati del Lungo Reno, assieme agli eventi, che in questi nove giorni, vi hanno preso parte.