“Voglio scrivere e mi viene fuori schiuma, / voglio dire moltissimo e m’ingolfo; / ogni cifra parlata è successione, / ogni scritta piramide ha il suo nucleo”.
Con queste parole di Cesar Vallejo,1 Armando Andrade Tudela e Daniel Steegmann Mangrané ci invitano all’interno della loro conversazione attraverso una doppia personale da Francesca Minini a Milano, esortando a leggere liberamente le forme emerse dal proprio linguaggio scultoreo come una “scrittura di schiuma”, fatta al contempo di geometrie organiche e razionali.
Come una pioggia immobile, le tende di alluminio installate da Steegmann Mangrané suddividono con ordine lo spazio espositivo, rallentando il cammino e lo sguardo del visitatore con le loro velature argentate (⪞ e ⪝, 2021). Sta allo spettatore scegliere se attraversare le sottili catene, interrompendone l’immobilità, o se utilizzare le morbide aperture geometriche ritagliate nella loro trama come ripari per proseguire in silenzio il proprio percorso.
L’inevitabile coreografia che ne deriva, tra corpi e geometrie metalliche, è utile per dare forma all’esperienza espositiva, divisa in momenti più contenuti, adatti a far emergere i dialoghi fra opere e focalizzare così la nostra attenzione.
La leggerezza apparente delle catene di Steegmann Mangrané è in dialogo con le pelli cromate delle sculture di Andrade Tudela (Thin nut’s skin, 2021). La loro forma organica, derivata dalla membrana legnosa che separa i due gherigli all’interno delle noci, è qui espansa fuori misura grazie al processo scultoreo. L’origine vegetale è tradotta in epidermidi ferrose: lembi strappati, granulosi e irregolari ma pieni di vitalità, che, come animali in una foresta d’acciaio, si sorreggono e avvolgono attorno a lucidi cilindri sospesi a mezz’aria. Questo passaggio di stato, dall’organico al metallo, esalta la topografia di tali rilievi fitomorfi, ricchi di rughe e valli scoscese sulle loro superfici accartocciate, in netto contrasto con la solida regolarità delle sbarre cilindriche.
La geografia dei materiali è al centro anche della serie “Metamorphic map” (2021) di Steegmann Mangrané: attraverso grandi tessere di un mosaico murale, l’artista indaga il disegno geologico interno al marmo portoro, la cui riconoscibile ricchezza di colori risalta sulla superficie scura e opaca come fiumi in una cartina topografica lapidea. L’artista interrompe però tali disegni interni al marmo con tagli ondulati e ricorrenti, scomponendo il frammento originale in nuove mappe a rilievo di continenti minerali, terre emerse dal biancore delle pareti che, come isole appena formate, lentamente si separano all’inseguimento di invisibili movimenti tellurici.
Geometrie razionali ed elementi vegetali ritornano infine nell’ultima sala della mostra, dove due variazioni sul tema della colonna creano un nuovo ambiente, un giardino riparato, adatto a concludere questo dialogo espositivo.
Un ramoscello di legno, sezionato da Steegmann Mangrané per la sua lunghezza e ricostruito con cura, diventa la chiave di volta di un’architettura effimera, tenendo in tensione tre elastici scuri che uniscono pavimento e soffitto. Con la sua intrusione, questo perno vegetale suddivide la colonna in due forme piramidali, unite al centro dal suo nucleo delicato (geometric nature/biology, 2021).
Al loro fianco, una seconda colonna di ferro, laccata di un giallo lucido, contiene e comprime al suo interno abiti e oggetti da lavoro – sacche, gilet e giacche catarifrangenti – le cui cromie anonime si mescolano bene al colore del proprio contenitore. Anche nel lavoro di Andrade Tudela, le forme morbide dei corpi biologici, qui rappresentate per continuità dagli abiti da lavoro, si confrontano con la fredda rigidità di una geometria metallica che, a possibile metafora del processo industriale, costringe nei suoi limiti il corpo, le conoscenze e le abilità dei lavoratori, trasformandoli così in un bene di consumo (Strange arrangement of a skilled worker #1, 2021).