Dopo numerose tappe internazionali, tra cui la sezione Quinzaine des Réalisateurs del festival di Cannes, The Parents’ Room (2021) di Diego Marcon entra nella collezione permanente del Madre. È una narrazione ambigua, a tratti inquietante ma sempre pacata, di una famiglia mentre canta il racconto della propria tragedia: il padre ha ucciso in ordine il figlio, la figlia e la moglie, per poi togliersi la vita. La scena è fissa e si svolge in una camera da letto come tante, con un letto matrimoniale in ferro battuto, le coperte sfatte e una comune abat-jour con paralume bianco al centro del comodino. L’atmosfera è rilassata, l’ambiente luminoso, una finestra è spalancata su un tranquillo paesaggio. Mentre la neve fiocca, un merlo si posa sulla finestra e si ferma a guardare. «I oughta say now that it’s done…» esordisce il padre confessandosi in quello che diventa un botta e risposta in sei strofe con gli altri personaggi – i testi sono scritti da Marcon (in rima anche nella versione in italiano) e la musica originale di Federico Chiari, in una nuova perfetta collaborazione tra l’artista e il sound designer.
La voce è melodiosa, bianca quella dei bambini, e le parole che si scambiano sono a tratti tenere, ma in grado di suscitare sgomento perché focalizzano un’azione violenta su piccoli particolari e azioni quotidiane: «She clawed at the air / And as she laid there / I saw her nails were painted bright / blue». Complessivamente, la narrazione sembra mettere in scena un fatto di cronaca spesso accaduto e sicuramente già parte della memoria collettiva. In un’ambientazione rivisitata dei fratelli Grimm e delle commedie americane anni ’90, Marcon continua la sua sperimentazione sul linguaggio cinematografico, destrutturando le caratteristiche basilari di generi ben codificati – musical, cartoon, horror, slapstick commedy – con l’aggiunta di elementi realizzati digitalmente con la tecnica del Computer-Generated Imagery nella fase di produzione, tra cui ad esempio il merlo.
I personaggi sono attori decostruiti con maschere e trucco prostetico dall’aspetto appena deforme, con tutti i più piccoli tratti della fisionomia dei volti esasperati fino ad annullarne qualsiasi forma di espressività. I corpi si muovono lenti, la postura controllata resta quasi fissa, al punto da sembrare un film realizzato in stop-motion e non una pellicola 35mm.
L’azione della storia non si chiarisce mai del tutto. Quando la musica finisce, il merlo vola via, inizia la seconda fase della storia di silenzio prolungato, continua poi in loop sul fondo di una sala del museo allestita con la stessa moquette color crema e il battiscopa in legno della stanza in scena.