I know what she means when she says La La La La La La1: Ariana Reines di

di 29 Aprile 2022

“Tell me stories!” è una rubrica sulla scrittura, a cura di Manuela Pacella. Uno spazio in cui testi di e su diversi autori indagano la scrittura d’arte, sperimentale, interdisciplinare, creativa e non.

Gira voce che chi contribuisce a questa rubrica poi riceve un messaggio dall’autore del quale ha scritto. Da giorni visualizzo a intermittenza, due, soli, possibili, scenari: che quello che scriverò le farà schifo o, più probabilmente, quello che scriverò non lo leggerà mai: sto parlando di Ariana Reines.
Ho immaginato una scusa qualsiasi da indirizzare alla curatrice della rubrica, una cosa del tipo, perdona, mille impegni, lo so che te lo avevo promesso ma temo che dovrò darti buca per il contributo di aprile, mani giunte, cuore infranto. Poi ho deciso di prendere il coraggio a quattro mani e indirizzarmi direttamente a te.

No che poi siamo quasi coetanee; e non sei morta. Secondo me abbiamo anche qualche amico in comune. Anzi, non ci crederai, ma lo scorso autunno, era ottobre, un mio amico viene a farmi visita da Berlino. Uno alto, biondo, belloccio, insomma: uno che acchiappa. Infatti ha una tipa ma non solo: anche una relazione aperta. Io, fino ad ora, ho conosciuto solo i satelliti. Diversi, a dire la verità. E una sera di ottobre, era qui, erano già passati due giorni, quindi penso si annoiasse un po’, siamo a questa inaugurazione e arriva una tipa: un’amica, dice lui. Un’amica di Tinder. Per cui lui lì a parlare con lei tutta la sera, poi al momento dei saluti ci presentiamo e in due secondi scopro che è americana, è poetessa e ti conosce. Cioè, non credo fosse proprio una tua amica, una conoscente forse, una certa Dione, ti dice qualcosa? E a un certo punto mi fa, se vuoi posso metterti in contatto con Ar… e io a quel punto cambio subito discorso, le chiedo se le piace Parigi, delle sue poesie, che mi farebbe piacere leggerle. Poi, baci e abbracci e loro due vanno nell’appartamento di lei a Saint-Germain, solo che erano ubriachi per cui non hanno scopato. Neanche la mattina. Per cui non me la sono sentita di contattarla per chiederle delle poesie.
Comunque, lo avrai capito, questo ero solo un inciso perché devi sapere a me piacciono gli incisi e alla curatrice della rubrica le coincidenze, che lei il pezzo: lo legge di sicuro. Ma arriviamo al dunque perché ho solo 2500 parole a disposizione massimo. Anzi, metto subito le mani avanti: può anche essere che questo pezzo a un certo punto finisca così, in medias res. Potrebbe anche essere interessante, così poi la gente va a comprarsi i libri per scoprire come va a finire. Anche perché Ariana – e mi riferisco, non solo ai libri, ma anche ai contributi che ho avuto modo di leggere e ascoltare – sulla scrittura solleva un numero vastissimo di questioni che, per economia di questa rubrica, so già che non sarò in grado di esaurire: quella sul destinatario, ad esempio2. Infatti non mi stupisce che il suo sito web: sia un labirinto in cui mi sono persa più volte e, nonostante le numerose visite – tipo una folgorante ieri sera in cui parlava di Mozart3 – sono certa di non aver esplorato ancora completamente. Ma iniziamo dall’inizio. Seguirò un ordine cronologico: il mio.

Il primo libro che ho avuto tra le mani è stato Mercury. Punto.
Non posso aggiungere molto altro perché l’ho sfogliato appena. Ricordo la copertina blu. Ricordo alcune frasi, poche. Alcune di queste alcune, scritte tutte in maiuscolo. Ero a un bookclub in un seminterrato, The Ugly Grrrl Book Club, “To share and read texts that seem too intense to exist, that push feeling beyond the extreme. The program is open, please bring weird texts!4”. C’erano coltelli ovunque in questo seminterrato. Io: ossessionata dai coltelli. Ho anche fatto un workshop con uno chef per scegliere e affilare le lame. Per cui, se devi sfilettare un pompelmo, assolutamente il coltello seghettato. Quindi forse ero un po’ distratta. Comunque c’erano anche tanti libri, in questo seminterrato, libri sul tavolo e sugli scaffali… Solo che per i libri non ho seguito nessun workshop, infatti leggo un po’ a caso, in modo totalmente disordinato, te ne accorgerai. Per fortuna che il bookclub lo teneva una mia amica, infatti Mercury me lo ha prestato lei perché Mercury: non sono riuscita a trovarlo da nessuna parte. Non potevo crederci: da nessuna parte. Cioè è uscito nel 2011 ed è già introvabile. Ho passato in rassegna tutta la rubrica dei miei spacciatori di fiducia. Anche il sito di PortaPortese: Unavailable! Out of stock! Stavo impazzendo! Per sedare la rota ho cercato un altro titolo, un altro tuo libro disponibile, subito, e ho ordinato Coeur de Lion perché è vero che ormai ero entrata in fissa, ma ancora non ti avevo letto, per cui, prima di ordinare tutta la merce sul mercato, volevo assaggiare il prodotto.
Che poi assaggiare è un verbo particolarmente pertinente in questo caso perché Coeur de Lion è la marca di un formaggio francese a crosta fiorita. E infatti dopo aver letto il libro, sono andata al Franprix sotto casa a comprare Coeur de Lion, il formaggio, la sera del giorno stesso in cui mi è stato recapitato il libro perché Coeur de Lion, il libro, l’ho letto in qualche ora, tra la linea della metro quattro, la dieci e un café in rue Laplace, perché leggere in piedi, per strada, ho smesso con le scuole medie.

Allora, è vero che è abbastanza snello – un centinaio di pagine neanche – ed è anche vero che in fondo si tratta di un unico lungo poema, tipo La libellula di Amelia Rosselli (non so se hai presente), ma la verità vera è che questo è un libro che se inizi, poi lo devi finire. Cioè, fa parte di quei libri lì, di quella categoria specifica, speciale, RARA, che ti fanno quell’effetto. E dopo aver letto i commenti dei tuoi fan su internet, ho capito di non essere la sola, di aver preso parte a un’esperienza di massa: “LUCKILY I didn’t have to go to my stupid job and could sit in the park and READ READ READ IT5”.

Potrei citare altri commenti. Commenti estasiati come quelli di Dodie Bellamy e Kevin Killian per chiamare in causa due amici: tuoi, veri; miei, immaginari (poi ti spiego)6. Oppure quello di una sconosciuta che scrive: “When I downloaded a copy of her 2011 book Coeur de Lion off a torrent site, I did not get up from my bed until I read it once, and then again7”. Tra l’altro, anch’io ho l’edizione Fence del 2011, perché quella originale e autoprodotta del 2007: che te lo dico a fare8.

Ecco, ora potrei anche dirti di cosa parla. Ovvero potrei dirti che si tratta di una storia d’amore finita male; della storia “tra la poetessa e un certo Jake”, come annunciano gli urli su internet. Potrei anche dirti che, a un certo punto, lei si mette a leggere le mail di lui, a sua insaputa, e che un’altra volta fanno sesso in una calle dietro San Giorgio Maggiore, anche in un bagno della Columbia mentre Alain Badiou è in aula a fare lezione. Quindi, tracciarne una sinossi, sarebbe poco interessante, perché diegeticamente parlando: non succede nulla di ché. E perché, fondamentalmente, ciò che ti tiene inchiodato, ciò che ti fa sperare che il libro possa prolungarsi ancora, e ancora, è come ne parla, è il linguaggio che utilizza, è la deflagrazione di significati che si scatenano da una pubblicità di American Apparel o da un preservativo che non è stato usato. Ed è proprio il fatto che l’argomento di partenza sia fondamentalmente ordinario che ti rende del tutto euforica, perché sono bravi tutti a raccontare una storia eccezionale, una storia impegnata, una degna di nota, ma raccontare qualcosa di assolutamente ordinario e renderlo interessante è una prova che superano in pochi9.

Ariana Reines, Telephone, 2018; e Ariana Reines, Heal Her and THE WIND IN THE SINGER HAD TO PASS THROUGH HER HEART, 2020. Copertine. Fotografia dell’autrice.

Onestamente questo pezzo potrebbe concludersi qui. Ma, visto che ho ancora 1193 parole a disposizione, magari mi dilungo un altro po’. Anche perché dalle ultime file ho sentito borbottare, ah, vabbè, questa Ariana Reines filosofeggia a partire dai cessi pubblici, dalle caselle di Gmail, dai body in lycra, insomma da cose così… E dalle prime file, ok, tutto chiaro, Ariana Reines usa un linguaggio contemporaneo, fa un discorso sul presente… No, non era Giorgio Agamben. Comunque, per quelli delle ultime file: in Ariana Reines trovi anche altro, molto altro, molto molto molto altro. Da qualche parte ho letto che si sveglia tra le quattro e le sei del mattino10. Perché va bene che ha frequentato il dipartimento di Letteratura francese e Filologia romanza alla Columbia University, che ha studiato con Sylvère Lotringer, che il suo curriculum vitae è lungo quattordici pagine scritte fitte, ma è pur vero che ha una fame IMPRESSIONANTE, fuori dal comune. Tieni pure presente che, nonostante l’iter accademico prestigioso (tutto fully-funded), proviene da una famiglia modesta, a tratti indigente: la madre a un certo punto irrompe nel suo dormitorio perché si ritrova senza tetto. Cose che capitano, mi dirai. Lo dice anche lei11. Solo che capita più raramente che poi una si metta a scrivere poesie definite “model for punk erudition” da Chris Kraus12 e che, leggendole, uno non percepisca né lo sforzo né il compiacimento. Se la Treccani avesse chiesto a lei di scrivere La Psicoenciclopedia Possibile, sarebbe uscita in dieci volumi e, al contrario di Gianfranco Baruchello, non ha ancora compiuto quarant’anni. Anzi, in caso volessi farle gli auguri, il suo compleanno è il 24 ottobre.

Quindi, nei suoi libri, ultime file: trovi molto altro. Riferimenti alla letteratura, alla musica, ai popoli antichi, al misticismo, all’alchimia, anche alla digestione. Prendi The Cow, il suo primo libro, un libro di poesia uscito nel 2006, paragrafi e paragrafi sui ruminanti e sulla digestione bovina. Che mi dirai, oddio che palle, infatti: hai ragione. E l’altro giorno mi sono messa a guardare Deserto rosso per capire se le industrie, i fumi, le ciminiere, le pozze di acque reflue del film di Michelangelo Antonioni potessero essere un equivalente dei paragrafi sulla digestione di The Cow. A un certo punto mi sono domandata, dove lo vado a trovare un corrispettivo a questi paragrafi? Perché in poesia, ma anche in letteratura: nessuna traccia. Cioè, normalmente quello a cui tende un autore è scrivere qualcosa di erotico: ovvero di esteticamente stimolante per il lettore, perché qualcuno che passa il pomeriggio a leggersi i bugiardini delle scatole dei medicinali: non si è mai visto. Quindi quando a pagina trentuno di The Cow si comincia a parlare di vacche, rimani un attimo spiazzato. A cow is ruminant; she gazes and ambles, she stands still e poi A cow is a name for a heavy woman or a woman with sloe eyes e più avanti The four compartments of her stomach are the rumen, the reticulum, the omasum, and the abomasum e prosegue, in modo esponenziale, tutto in maiuscolo e senza spazi A TYPICAL FRESH CARCASS CONTAINSAPPROXIMATELY32%DRYMATTER,OFWHICH52%ISPROTEIN, 41% IS FAT, AND 6% IS ASH.
Paragrafi e paragrafi che compaiono a intermittenza con blocchi di testo più “tradizionalmente” poetici. E succede che, poco a poco, la noia si trasforma in un formicolante piacere perché ti rendi conto che, d’accordo, io ho un debole per gli incisi, Ariana Reines per la polisemia (a partire dai titoli), ma che questi paragrafi hanno a che fare con l’orizzonte di intenti e aspettative della scrittura (citare Deleuze e Guattari in un testo letterario: sconsigliato; in un testo critico: caldeggiato), hanno a che fare con le possibilità di creare desiderio (perché a un certo punto in Deserto rosso speri che compaia La spiaggia rosa) e che, fondamentalmente, questi paragrafi sulla digestione non sono altro che un modo per dirti: My whole body writes13.

Ecco però, detto così, onestamente: non arriva. Cioè, io ci ho provato, ma non si capisce. Non nel modo in cui lo capisci se leggi The Cow. E questo mi ha fatto riflettere sulla differenza tra un testo critico e uno letterario. Cioè che la questione del corpo situato, della pagina bianca che non è mai bianca, ecc ecc ecc, è qualcosa che conosciamo, di cui parliamo, però, fino adesso, io non ho trovato nessuno che lo spiegasse così bene. Forse proprio perché non lo spiega, ma lo fa vedere, lo fa sentire il processo involontario, la durata lunga, lenta, inesorabile, di questa metabolizzazione di tutto ciò che ti circonda, della realtà esperita, tutta intera, che ricrea altra realtà.

Ariana Reines, A Sand Book, 2019. Copertina. Fotografia dell’autrice.

Comunque, devo ammetterlo, ci ho messo un po’ a iniziare questo contributo. Mi ero ripromessa, a febbraio: fermi tutti, ora mi dedico solo a te. Poi un giorno, passo accanto alla pila dei libri che vorrei leggere, quella che aumenta indipendentemente dai libri che hai terminato, e ho afferrato Bee Reaved di Dodie Bellamy. Afferrato e letto in fretta e furia. Un po’ per senso di colpa, un po’ perché con la sua scrittura accade così, poi a metà libro: trovo te. È un segno, mi sono detta. Sai quei segni che: se ti capita con il tuo ex, ti si è rovinata la giornata, ma in questo caso: sono pronta, ora mi metto a scrivere. Forse perché ispirata dalla canzone che canti in clinica, o forse perché Dodie Bellamy mi ha suggerito una risposta alla domanda che mi ponevo dalla scorsa estate, ovvero ma perché Chris Kraus scrive che Ariana Reines “has reinvented poetry for the contemporary art world14”? Perché ci troviamo qui a parlarne su Flash Art? Perché, se ci pensi, non ha molto senso. Se ci pensi, cioè, è abbastanza sorprendente perché Ariana Reines scrive quasi esclusivamente testi poetici in cui neanche parla d’arte (d’arte visiva, intendo), pubblicati da case editrici specializzate in poesia (non libri d’artista), pensati per la pagina scritta (non per un contesto espositivo) o per farne esperienza in letture pubbliche (non performance). Eppure il suo ultimo libro, A Sand Book (2019), raccoglie poesie commissionate da Paul B. Preciado per il MACBA, da Ruba Katrib per lo SculptureCenter, da Seth Price per lo Stedelijk Museum, e altre comparse su Spike, Parkett, o Artforum. Su quest’ultimo tiene anche una rubrica intitolata New Moon Report in cui parla di solstizi ma non solo15. Cioè, mi sono detta, va bene che negli Stati Uniti esperienze come Small Press Traffic o Semiotext(e) hanno forzato le frontiere tra generi e linguaggi e hanno reso sistemico un processo osmotico tra mondi che tendono a rimanere separati (e lo avrai capito dalle persone che ho nominato, Reines si colloca in quel solco lì), ma è anche vero che il mondo dell’arte, quel mondo complesso e complicato che a cadenza regolare testimonia congedi (attuati e annunciati), ha il merito rispetto ad altri mondi, deontologicamente più cortesi, di considerare l’arte senza aggettivi postposti. Cioè, il mondo dell’arte ha questo merito, per tradizione ma anche per mistero, di accogliere tutti quegli sfollati di altre discipline che non vengono ascoltati, capiti e quindi marginalizzati. Per cui non mi stupisce che, anche se avevo sentito parlare di Patrizia Vicinelli, poi mi sia trovata a leggere alcune delle sue poesie dentro a un museo16. E capita anche che nel bookshop dello stesso museo, in cui ero andata a chiedere dei suoi libri, ne ho trovato un altro con delle tue poesie. Un libretto bianco, leggero, con la copertina flessibile. Uno di quei formati che mi piacciono tanto perché posso tenerli in borsa e scorrazzarli in giro ovunque. E mi sono annotata una poesia, di Patrizia, annotata tra le immagini del mio telefono, e penso che ti sarebbe piaciuta, questa poesia del ’62 che recita O musa tu sai dirmi perché l’oroscopo di oggi è dolce come il succo di frutta gopò? Invece, ahimè, o musa i pidocchi ritrovo in ogni dove. E magari te ne avrei inviata una copia di questa e di altre sue poesie che ho cercato in questo museo e altrove, ma ovviamente non le ho trovate perché sono inedite o fuori catalogo. Ma chissà: forse anche tu hai visitato questa mostra romana, e poi forse la Cappella Spada in San Girolamo della Carità, e magari anche l’albero sulla Nomentana dove si è schiantato Rino Gaetano, non solo il memoriale di Pasolini all’Idroscalo di Ostia, e non mi stupirebbe affatto se lo avessi fatto. Non ne sarei punto sorpresa se fosse andata così, perché Ariana Reines: ha le unghie sporche di terra. Ma ora ho davvero terminato il mio spazio a disposizione. Tanto tu, hai capito cosa voglio dire.

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Alda Palermo