Se il linguaggio è un virus, la parola cos’è?
Di piccoli esseri, potentissimi e invisibili, è fatta la narrativa invocativa di Francesco Cavaliere.
Ogni saga è una forma infettiva che dilaga nell’etere, contamina e scompare.
A volte lascia tracce, altre volte no, a volte il sistema immunitario dell’ascoltatore è talmente forte da non lasciare che le creature invocate penetrino.
Altre volte questi tasselli si instaurano nella corteccia e non se ne vanno facilmente.
Nelle storie di Francesco Cavaliere le parole mutano e si contorcono, non rappresentano più nient’altro che il loro nuovo suono.
Come in ogni buona invocazione non è l’abradacadabra a dettare il funzionamento ma l’intenzione con cui l’abracadabra stesso viene enunciato.
Le parole snodate quindi rimbombano e rotolano, strisciano sulla punta della lingua, si infilano nell’orecchio, rimbalzano tra la corteccia.
Non vanno mai al di sotto del collo. Nella testa devono rimanere.
E’ una visione.
E’ un acrobazia dell’inconscio prima e del linguaggio in seconda istanza.
La parola e, se proprio vogliamo, il testo, non sono altro che un pre/testo per fare capriole.
Queste capriole le fa la lingua di Francesco, tu puoi decidere se stare a guardarlo piroettare o lasciare che la tua corteccia si cappotti insieme a lui.
Anche solamente ammirarne le acrobazie sulla soglia è un esercizio virtuoso.