Il designer Rafael Kouto nutre da sempre interesse non soltanto verso i processi creativi nell’ambito del design tessile e della moda, ma anche e soprattutto verso le condizioni di produzione e i cicli produttivi che caratterizzano il mondo della moda. I ritmi fulminei di questa industria, specie nel contesto del Fast Fashion e del “textile waste”, rendono oltremodo urgenti le riflessioni sulla sostenibilità ed equità dei metodi di trasformazione e delle condizioni di lavoro. Con i suoi progetti di design basati sulla ricerca e la sua filosofia dell’upcycling, Rafael Kouto offre dunque un importante contributo al dibattito. E sono questi i temi che il giovane designer riprende e attualizza con la sua nuova videoinstallazione Don’t Steal our Sunlight e il workshop pubblico in programma il 7 giugno alla House of Switzerland per la Milano Design Week.
Punto di partenza per questo nuovo progetto sono le ricerche sull’evoluzione dell’architettura e del design italiani degli anni Sessanta e Settanta, in particolare il lavoro dei collettivi di giovan* architett* e designer sorti in quel periodo a Firenze e determinati a ripensare in modo radicale la professione. Nella fattispecie, Rafael Kouto ha indagato su Archizoom (fondato nel capoluogo toscano nel 1966) e su Gruppo 9999 (attivo dal 1968 al 1972), promotori di una riflessione critica non solo sul ruolo delle stiliste e degli stilisti, ma anche delle consumatrici e consumatori di moda e design: tanto i primi quanto i secondi dovevano infatti assumere una posizione attiva e responsabile rispetto ai processi produttivi creativi e industriali della moda e sviluppare consapevolezza del rapporto tra corpo/individuo, cultura, moda e ambiente.
Contemporaneamente, l’approccio di questi ‘design radicali’ sosteneva la necessità di assicurare processi di creazione e produzione armonici nei confronti della natura e dell’ambiente, e non conflittuali com’erano invece stati in passato. Idee di grande attualità nell’Italia degli anni Settanta, segnata dall’ascesa dei movimenti politici ambientalisti e dalla nascita del Club of Rome dell’industriale Aurelio Peccei, con il suo discusso Rapporto sui limiti dello sviluppo (“The Limits to Growth”). Oggi, a cinquant’anni di distanza, con la crisi climatica in atto e i suoi effetti di portata globale, la loro attualità è ancora intatta.
Ed è da qui che parte Rafael Kouto. Sia il workshop pubblico sia la duplice videoinstallazione Don’t Steal our Sunlight tematizzano le conseguenze dei cambiamenti climatici attraverso due diverse tecniche di produzione tessile che intrecciano svariati nessi narrativi, con riferimento in particolare ai fenomeni mondiali dello scioglimento dei ghiacciai e della desertificazione–quest’ultima accompagnata dalla perdita di ampie strisce di terra fertile. Già da tempo il designer tinge i suoi capi mescolando i pigmenti tessili con l’acqua di sculture di ghiaccio sciolte: è a questa tecnica che rimandano tanto l’opera video quanto il workshop. L’associazione con lo scioglimento dei ghiacciai è evidente; al medesimo tempo, però, Rafael Kouto evoca il potenziale insito nello scambio dei saperi, nelle esperienze condivise e nelle attività comuni (con riferimento al laboratorio), nelle tecniche di tintura dei tessuti in varie culture dell’Africa e nel recupero, assai diffuso nel continente africano, di taniche di benzina e altri contenitori per trasportare l’acqua. Arriviamo così alla progressiva desertificazione, che colpisce ormai non soltanto il Sud del mondo, ma anche e sempre di più l’Europa, rendendo l’approvvigionamento idrico a sua volta sempre più complesso e costoso. Riutilizzando scarti di pellame in tinte naturali forniti da Bally, azienda svizzera che opera nel settore della moda, Rafael Kouto ha creato gli originali capi che vediamo nel secondo video. Unite con una speciale tecnica all’uncinetto e dipinte all’aerografo con pigmenti naturali in polvere, grazie alle loro linee e ai loro motivi le stoffe così ottenute ricordano paesaggi aridi e torridi, formazioni desertiche e sabbiose. Entrambi i video sono fra l’altro stati girati in un ex cementificio nel Canton Ticino, simbolo insieme dello sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta e dell’ingerenza umana nei cicli della natura.
Il titolo Don’t Steal our Sunlight è un prestito dal romanzo semi autobiografico Latte arcobaleno (“Rainbow Milk”, 2021), dell’autore anglo-giamaicano Paul Mendez. L’accusa di rubare il sole era rivolta alle persone di colore e il legame tra discriminazione razziale e risorse naturali è per Rafael Kouto questione di rilevanza centrale. Un legame che nel presente dominato dal capitalismo risulta quanto mai attuale, ad esempio per quanto concerne l’accesso all’acqua potabile. Don’t Steal our Sunlight intreccia tutti questi temi (e altri ancora). Ma Rafael Kouto non intende semplicemente comunicare o illustrare fatti e dati, bensì utilizzare lo straordinario potenziale narrativo delle esperienze visive, uditive e aptiche per ricordarci che tutt*, trattando e consumando prodotti, svolgiamo un ruolo attivo nei cambiamenti climatici contemporanei. E che la possibilità di correggere la rotta è nelle nostre mani.