Alfredo Aceto Istituto Svizzero / Milano di

di 19 Marzo 2019

Immaginate dei preliminari continui e perenni. Dei preliminari non finalizzati all’orgasmo. Non c’è ascensione. E non c’è nemmeno una vetta catartica da raggiungere. Non immaginateli come gesti propedeutici e preparatori. Pensate piuttosto a una relazione non strumentale, a un passaggio che non porta da nessuna parte. Ecco, pensate al movimento incessante della lingua che si posa sul sesso, e che vi fa dimenticare la differenza tra voi e le cose. È questa la tensione che tiene assieme gli oggetti di Sequoia 07 – il progetto di Alfredo Aceto ospitato negli spazi dell’Istituto Svizzero di Milano. Oggetti porosi, non autonomi, inafferrabili. A dispetto delle loro linee nette, dei loro volumi sicuri. “Un essere poroso”, ha scritto Mario Perniola (Il sex appeal dell’inorganico, Torino, Einaudi 1994), “ha per base la propria nullità: come dice Hegel, esso ha la propria essenza entro un altro, esso è per sé in quanto è per altro”. Ciò che determina la porosità dei lavori, infatti, non è la loro forma né la loro composizione materica, quanto la costruzione di una partitura, di un protocollo che propriamente li inserisce all’interno di uno spazio e di un tempo determinati. Si tratta tuttavia di uno scenario vago, sfocato, legato a ricordi d’infanzia dell’artista, e a un racconto di sua nonna: “la storia di alcuni giovani scortati – attraverso un tunnel di alberi – da una donna su un cavallo bianco con Sequoia, il suo modello d’auto preferito, una Toyota del 2007”.

La manifestazione di questa drammaturgia segreta ci appare perciò sotto forma di immagini indefinite, è appena rilevabile dagli oggetti presenti; come nel caso di Grass snake digesting Bertrand Lavier (2019) e Common boa digesting Carla Accardi (2019) – sculture la cui forma ricorda quella di una marmitta automobilistica – o come in CENTAURE (2019) – un corno poggiato su due camice blu “formali” piegate sul pavimento, forse gli indumenti dei giovani scortati. Aceto decostruisce innanzitutto quello che Dorothea von Hantelmann ha definito il “regime di separazione” del dispositivo mostra, ovvero il presupposto d’estrazione dell’opera da un originario contesto. Tuttavia, il modello progettuale al quale fa riferimento non è da associare alle retoriche delle pratiche site-specific o a quelle dell’installazione: l’artista opera su una ormai evidente obsolescenza del gesto curatoriale inserendo i suoi oggetti nella costellazione della scrittura, come contrappunti regolati dal principio generale del collage. Assicurati nelle maglie della narrazione gli elementi di Sequoia 07 si ritirano, sfuggono a ogni correlazione: identici e irriconoscibili sono costantemente altrove. Sembrano quasi indurre a un’esperienza “spostata” dell’oggetto, liberata dall’ossessione dello scopo e spalancata su un abisso inconoscibile. Non ci resta che compiere inutili passeggiate – consapevoli dell’assenza di una meta – portandoci dietro un retrogusto agrodolce, come in quei preliminari senza fine che non sono orgasmo, ma che sono già sesso.

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Vincenzo Di Rosa