Quarant’anni dopo la storica mostra curata da Germano Celant al Centre Pompidou di Parigi dal titolo “Identité italienne”, Villa Arson a Nizza ospita una mostra sull’arte italiana dagli anni Novanta ad oggi, a cura di Marco Scotini, dal titolo “Le Futur derrière nous”. Il progetto si rivolge all’arte italiana non basandosi su una presunta “identità nazionale” ma individuando, invece, una frattura temporale da cui si dischiudono i vari nuclei concettuali della mostra: “Divenire Ex”, “Esercizi di Esodo”, “Vogliamo Ancora Tutto”. La scelta di questi titoli, così come le tematiche affrontate, suggeriscono la volontà di riflettere, a partire dal presente, sull’immaginazione politica di generazioni passate e sul loro potenziale avvenire. Le scelte curatoriali, che seguono per lo più il filone teorico dell’Italian Theory e una data congiunzione storica, incrociano le ricerche di alcuni artisti che a partire dagli Novanta si riconnettono alle rivendicazioni politico-sociali degli anni Settanta. Complessivamente, è restituito uno spaccato generazionale che tenta di rimodellare i traumi emotivi e umani ereditati dalle ultime generazioni, conseguenza della disintegrazione delle forze sociali e culturali che avevano animato gli anni delle contestazioni politiche e studentesche in Italia. Ciò che emerge dal percorso espositivo, è un approccio politico multi temporale: le opere esposte cristallizzano l’immaterialità di ciò che è presente ma che è stato celato a più generazioni – da forme di contenimento e repressione storica – e che si ripresenta come materia fantasmatica.
Prima di entrare nel vero e proprio percorso espositivo si incontra un’opera scritta sul soffitto con il fuoco: l’opera di Claire Fontaine cita Franco Berardi “Bifo”, attivista e agitatore che riflette sull’immaginazione politica e sugli psicodrammi ereditati dalle ultime generazioni. Sempre all’ingresso della mostra, l’installazione Sutra 69-79 (2022) di Stefano Serretta ricopre alcune delle finestre di Villa Arson con un giornale che attraversa la storia degli anni Settanta in maniera non lineare e fittizia, un assemblaggio di materiale underground dell’epoca intrecciato allo scacco storico subito dalle ultime generazioni dopo la crisi finanziaria del 2008. Già questi lavori sembrano anticipare come, per il curatore della mostra, le sedimentazioni storico-politiche e i relativi archivi non siano solo una fonte cui attingere quanto piuttosto un campo agitato da riattivare e da riscrivere. Da queste produzioni si deduce che l’ideologia di un tempo, che si muove secondo una cronologia unidirezionale, è capovolta. Lo stesso vale per l’ideologia della mappa: Mappa Atopica (1992) di Luca Vitone, che apre la mostra, è un manifesto generazionale che si serve ancora di alcune convenzioni del linguaggio cartografico, nonostante sia privo di qualsiasi indicazione toponomastica. In questa ricollocazione delle coordinate spazio-temporali, il futuro sembra potere ancora guardare al passato: Claire Fontaine, nell’installazione La liberté est-elle thérapeutique? (2008), riattiva l’opera teatrale e collettiva di un cavallo blu in cartapesta dal nome Marco Cavallo, icona delle lotte che negli anni Settanta avevano portato alla legge Basaglia del 1978, ponendola in dialogo con un loro lavoro testuale del 2008 dove si riflette sul significato della libertà in una società neoliberale.
Strutture sistemiche che sembrano lontane da noi, ma che riverberano nella vita quotidiana, irrompono anche nella sezione della mostra “Vogliamo ancora tutto” –– titolo ripreso dal romanzo di Nanni Balestrini – che accoglie tra le altre Street Ghosts (2012-2022), le silhouettes di Paolo Cirio che riflettono sulla sorveglianza invisibile e onnipresente di Google Street View e ci introducono a una sala che indaga la crisi della soggettività e le insorgenze storiche attuali. Il celebre slogan di Balestrini campeggia inoltre su uno dei libri-mattone di Claire Fontaine, insieme ad altri intitolati come noti testi di Carla Lonzi, la cui presenza aleggia anche nel lavoro di Chiara Fumai come spirito che possiede e ventriloqua il corpo dell’artista nel video Shut Up Actually Talk (2012). Infestazione storica e negoziazione con il presente si ritrovano anche nelle percezioni metaforiche delle opere di Massimo Bartolini: fra queste, un’ampolla di vetro installata al muro contiene un paio di delicati orecchini di perle, che l’artista immagina appartengano alla poetessa Cristina Campo. Mentre nella sala successiva Francesco Arena, con una sottile operazione concettuale, traspone nello spazio le ore dell’ultima giornata dell’anarchico Giuseppe Pinelli.
Le opere presenti nelle due sezioni della mostra “Divenire Ex” e “Esercizi di Esodo” intessono echi e riferimenti dagli anni Settanta: il cinema sperimentale di Alberto Grifi nell’opera di Alice Guareschi; il teatro di ricerca di Pontedera nel lavoro di Rä di Martino; la liberazione sessuale del gruppo Fuori! nel video di Irene Dionisio; il design politico di Enzo Mari nell’opera di Céline Condorelli. “Esercizi di Esodo”, in particolare, raccoglie una selezione di opere che riflettono sul tema del lavoro: le scrivanie di Marie Cool Fabio Balducci e l’installazione di Danilo Correale fanno riferimento alle teorie sul lavoro immateriale e post-fordista di Paolo Virno, Maurizio Lazzarato e Christian Marazzi fra gli altri –– tutti legati all’Italian Theory. Questa corrente di pensiero, largamente acclamata all’estero, si è sviluppata proprio all’esodo di molti intellettuali italiani in Francia.
Nella mostra, tuttavia, non c’è alcuna prospettiva di aderire né a questa scuola teorica né a un’identità fissa, ma è piuttosto il tentativo di un divenire delle coscienze – etico e intellettuale – che invoca un passato incompiuto e, per contro, la possibilità di un futuro che non ha ancora avuto luogo nella storia. Come nell’installazione di Rossella Biscotti Il Processo (2010-13), riferito alle vicende di Autonomia Operaia e allo stato delle scienze sociali, degli studi giuridici, nonché di buona parte del pensiero radicale e dell’attivismo politico.
Installata nel giardino di Villa Arson, la composizione sonora in cinque atti di Adelita Husni-Bey –– realizzata in collaborazione con l’Orchestra da Camera di Radicondoli (OCRA) e con la partecipazione dell’Associazione Teatrale Rabèl –– è composta da improvvisazioni musicali basate su esercizi sonori di Pauline Oliveros e di Ultra-red, le quali intrecciano memorie personali raccolte dall’artista durante il periodo pandemico con estratti storici sulla peste del 1631-33. Anche quest’opera, come le altre esposte in mostra, è un invito a immaginare in modo poetico e politico le possibilità di una riattivazione, attraverso l’invocazione di un’altra temporalità, di una dimensione collettiva da cui creare e condividere un futuro, anche dietro di noi.