Nel panorama ormai globalizzato e ipermediato dell’arte e della moda, ogni visione è destinata a essere sintetizzata a svantaggio della storia che si porta dietro e dell’unicità. È quanto ha tentato di documentare l’epicurea Sylvie Fleury che fin dall’inizio della sua carriera ha volutamente messo in discussione ogni conformità stilistica. L’intenzione è di provare, con leggerezza e umorismo, che la sua ricerca artistica pone le basi sulla seduzione e sul potere degli oggetti, sull’energia che questi idoli artistici e pop-capitalistici generano sugli individui (ella in primis); pertanto ogni elemento, bidimensionale o tridimensionale, unico o in serie, di arti applicate o mass-media non corrispondono a un unico punto di vista ma a una dinamica e caleidoscopica prospettiva dei linguaggi contemporanei. Come nel corso della sua lunga e prolifica carriera Pablo Picasso è stato realista, simbolista, espressionista, primitivista, cubista (insieme a Braque), classicista e surrealista, anche Fleury prova a dialogare e a inglobare il tempo in cui si trova. Crea dialoghi impossibili: studia il passato, mettendo in mostra l’ultima automobile utilizzata da Picasso nel ’63, una Lincoln Continental bianca (Basilea, 2018), e immagina il futuro, muovendosi a bordo di missili lucidi e colorati (First Spaceship on Venus, 1996).
Stavolta si confronta con il più rigido dei periodi della storia dell’arte occidentale. Con il più essenziale dei momenti, come a dichiarare la massima onestà, e un nuovo inizio. Il suo identikit, che prende forma nella collezione di abiti indossati dall’artista negli ultimi tre decenni in mostra al Bechtler Stiftung di Zurigo, è un racconto autobiografico concepito attraverso cimeli personali. L’atmosfera dello spazio –progettato da EM2N– prende il suo rigore formale e minimalista con un allestimento commerciale da show-room a cura di Niels Olsen e Fredi Fischli. Nel white cube a pianta rettangolare è disposta un’ampia serie di rack placcati d’oro disposti seguendo un ritmo a chevron – in riferimento all’opera di Walter De Maria, The 2000 Sculpture (1992) – sui quali ciondolano abiti di Chanel, Jean Paul Gaultier, Miu Miu, Thierry Mugler e Vivienne Westwood. La silente e monumentale istallazione permanente di gessi di De Maria, istallata nella sala a fianco, fa da sfondo ad una serie fotografica realizzata in occasione di questa mostra. Le immagini, raccolte in un catalogo progettato da Teo Schifferli, sono state realizzate dalla stylist Ursina Gysi e dal fotografo Marc Asekhame. A rafforzare la relazione con l’arte minimale, in questo contesto, è anche il titolo della mostra, “Double Positive”, che fa riferimento alla trincea tracciata da Michael Heizer nel 1969 nel deserto del Nevada. Lo spaesamento che consegue è imprescindibile e ineluttabile, perché Fleury è dai primi anni Novanta che teatralizza il Novecento artistico e industriale per disciplinare e dare forma a un istinto creativo vorace, onnivoro e mutante: entra e esce dai temi odierni, intreccia ossessioni intime con i massimi sistemi; orchestra, cura e riorganizza il materiale tattile e visivo a sua disposizione rendendo pregevole persino ciò che è banale. O viceversa. Naviga tra i suoi ricordi e le sue pulsioni e li deposita, generalmente, in enormi ambienti, che diventano luoghi sublimati di una coscienza critica, beffarda e lusoria.