“L’immagine povera è una copia in movimento. La sua qualità è scadente, la sua risoluzione è inferiore agli standard. Accelerando, si deteriora. È il fantasma di un’immagine, un’anteprima, una miniatura, un’idea errante […] L’immagine povera è uno straccio o uno strappo; […] viene liberata e catapultata nell’incertezza digitale, a scapito della propria sostanza. L’immagine povera tende all’astrazione: è un’idea visiva nel suo stesso divenire.”
In In difesa dell’immagine povera, saggio pubblicato su e-flux nel 2009, Hito Steyerl delinea le caratteristiche di un panorama visuale in cui la risoluzione delle immagini è il criterio scelto per instaurare rigidi rapporti di potere, circoli viziosi di capitalismo audiovisivo dove gli scarti virtuali relegati ai margini finiscono per contraddire la stessa grande promessa delle tecnologie digitali. Steyerl si riferisce all’immondizia depositata sulla riva delle economie digitali: i file corrotti, pixelati, gli AVI o JPEG riconvertiti innumerevoli volte fino a diventare nient’altro che una suggestione di sé stessi. Per ogni configurazione audiovisiva, infiniti residui di una genealogia sul web impossibile da rintracciare aspirano a fare capolino con lo stesso fare minaccioso di un virus, con la stessa incertezza di un sito oscurato alla visione, con lo stesso mistero di una maledizione la cui fonte è impossibile da rintracciare.
Se dietro ogni immagine iconica si nasconde un oceano di copie spettrali tese verso il desiderio di emergere nella loro inquietante singolarità o destinate a vagare nei deserti digitali senza mai scorgere il tanto agognato istante di attenzione, è proprio ai limiti di quella terra desolata che conduce “White Sands ATS-3”, la mostra curata da Caroline Drevait e Estelle Marois da Baleno International, dove sono esposte le opere di Clémentine Bruno, Parker Ito e Christophe de Rohan Chabot. Nello spazio della galleria romana, le stratificate stampe di Ito – immagini infestate, sovrapposte e incise con simboli magici –, le decostruzioni religiose di Bruno e le icone deteriorate di de Rohan Chabot dialogano in un contraltare dedicato al Nuovo Simbolismo che, al contrario della Nuova Carne teorizzata da David Cronenberg nel 1983, immagina il rapporto tra essere umano e tecnologie digitali come avente origine su un piano spirituale, attraverso un’astrazione ritualistica che mira a uno stato di techgnosi più che alla creazione di un’estensione corporale.
Nonostante le assenze e i vuoti delle configurazioni visive create da Bruno rimandino a una rigorosa tensione tra ciò che si vede e ciò che non si vede, la mostra differisce dal primo capitolo del progetto curatoriale di Drevait e Marois, “not before it has forgotten you” – presentato nel 2022 presso The Pole Gallery a Parigi e Nicoletti Contemporary a Londra – per un sostanziale cambio di focus. Più che con l’idea di un’opera impossibile da ricordare – viva quindi solo grazie al fenomeno della sua assenza – “White Sands ATS-3” presenta una selezione di file guasti la cui visibilità è fin troppo enunciata; corpi così tangibili da essere stati riprodotti e rielaborati centinaia di volte fino ad ottenere l’effetto opposto: la rarefazione. L’ontologia pixel-based dell’iconografia religiosa di Bruno in TOTAL (2023), i collage di Ito a metà tra dittici medievali e scrolling infiniti – nella serie “Visions of the Pilgrim’s Printer Progress from this world” (2023) ¬– e le icone pop deformate da de Rohan Chabot in Untitled (Redy) (2023), che finiscono per somigliare a immagini cursed, cioè corrotte a tal punto da diventare inquietanti come i personaggi di una creepypasta diffusa sul web e manifestatasi nel mondo reale.
Le opere esposte in mostra proliferano sotto forma di circuiti senza fonte, proprietà o luogo. Se la forsennata circolazione e la dispersione di informazioni sono valori primari del panorama visuale contemporaneo, cosa comprende l’etichetta di “arte post-internet” se non ogni opera mai realizzata sin dall’alba dei tempi, ricontestualizzata oggi in un mondo che non potrà mai conoscere altro che quello dominato da una rete unificata globale? Per questo motivo, il progetto espositivo di Drevait e Marois non è un manifesto, ma una capsula del tempo destinata a essere aperta quando raffigurazioni religiose, documenti nomadi e immagini digitali corrotte avranno lo stesso valore sacro, circondate oramai dallo stesso fascino ascetico e dallo stesso alone di misticismo.